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ATTILA

Prologo drammaturgico: io ero rimasto a Mark Wayne Hateley, nato a Wallasey, nel Merseyside, il 7 novembre del 1961. Tra parentesi: seguitemi con pazienza e compassione, se ne avete, prima o poi, onanisticamente, arriverò al PippoMio di Atene Gloriosa, quando gli Dei del Falero simposiale s’inchinarono all’uomo col labbro divelto e la faccia straziata e il petto aggettante da aedo cantagoleador avvinghiatore dello xiphos omerico in guisa di bandierina del calcio d’angolo, dopo l’infilzata fatale ai rossi britanni della città dei fab four (nonché ex team di Ian Rush, nel 1987 colpaccio zebraico da 7 miliardi di lire del dopo Le Roi, che con la scala mobile e un po’ di anatocismo, sono più o meno come i 90 milioni di Ciccio Gonzalo di oggi; no, per carità mica voglio tirarvela, gobbetti cari; Tortellino Gonzalo è un’altra roba; Ian Baffetto Rush, pagato 5 miliardi in meno di Maradona, arrivava solo con la fama di cannoniere immarcabile e implacabile…non dico a chi non sa di storia com’è andata a finire la storia). Fermatemi.

Ian “baffetto” Rush

FORLÍ VS PIPPOMIO

PippoMio fu il Pelìde Sommo di quella notte seminale di nove anni fa. Ventitrè maggio 2007. Ora PippoMio fa il mister dei neroverdi del Venezia gondolante per le semiscure calli della serie C e primo avversario del Forlì nella nuova stagione pro dei galletti biancorossi, ripescati e poi rigettati nell’agone dei flutti.

Ebbene, reitero la mia noiosità, io ero rimasto a Mark Attila Hateley. No. Che nessuno dica: chi?, vi scongiuro. Piuttosto mentite a voi stessi (peraltro allenamento quotidiano generalizzato). Ma non dite, chi? Lo so. Ho l’eta dei post babyboomer. Quelli che: avevano vent’anni negli anniottanta, sono stati esclusi dal Piano Marshall, non sono Non-nativodigitali, e nemmeno non-pensionabili (mortalmente feriti dalla riforma Dini). Gli Ottanta, miei cari che arricciate il naso, sono stati gli anni, per dire, in cui l’orizzonte socio-privato fa irruzione nel socio-pubblico. E viceversa. Sì, miei cari. Inutile che li vituperiate, gli anniottanta. Senza quegli anni lì, i diritti sociali sbandierati nelle piazze di piombo dei Settanta, così tanto adulati dai saccentini neogramsciani, non si sarebbero mica concretizzati, mica! È negli anniottanta che i diritti civili dei borderperson (gay, transessuali, milanisti, tanto per dire) escono dai vaporosi battelli sul Mississippi dei Settanta ed entrano nelle case con le tapparelle marroni degli Ottanta. Che goduria, divagare.

LINEA D’OMBRA

Dicevo, Mark Attila Hateley. Prima di PippoMio, ero rimasto ad Attila. Lui fu il deglutimento delle emozioni, quello sforzo che si fa con la gabbia dentale, la lingua in paresi e il velopendulo glandeo quando ti passa vicino la diligenza della tua sperduta innocenza; quando, raccogliendo la felicità, o sfiorando il dolore, perdi inesorabilmente qualcosa nello sforzo di trattenere tutto, lo perdi per sempre, convinto che lo ritroverai, prima o poi, e invece. Attila Hateley (si vabbé dovrei metterci anche Proust e Falco di Der Kommissar, ma sento che qualcuno sta già bofonchiando: minkia che povero ignorante ulcerosnob metareazionario, questo qui) fu la mia linea d’ombra. Decisamente non precoce, certo; ma che volete, sono perspicace in tutto per mera sopravvivenza, ma precoce in nulla, proprio in nulla, per piacevole indulgenza, se proprio devo dirvela tutta.

Attila fu La Seconda Stigmata Rossonera.

Attila

I FERROVIERI

Ma non pensiate, e non pensino i miei tanti amici, nemici, conoscenti, riconoscenti e contatti interisti, che io mi riferisca alla messinpiega fatta a Collo Collovati il 28 ottobre del 1984 (io c’ero, proprio in quella curva). Per niente. Mi riferisco alla freddissima serata del 23 ottobre 1985. E io c’ero. Ovvio.

Di fronte ai ragazzi con la maglia rossonera sulle spalle c’è la Lokomotive di Lipsia. È ancora l’epoca della Stasi. Andata dei sedicesimi di coppa Uefa. I giocatori della dedeerre giocano per la squadra dei ferrovieri del popolo dell’est dell’utopia e sfoggiano una maglia gialla e un incarnato di marmo lunense. Corrono. Corrono. Dopati, si direbbe oggi, col piglio moralisticheggiante odierno. I rossoneri arrancano. In campo c’è Attila, che per Pellegatti è Collo d’Acciaio. Per me, anticipando Cervo che esce di Foresta, è Vichingo Che Vola. Attorno ad Attila, guizza Macina, gigioneggia Pietro Paolo Virdis, sviolinano DiBa Di Bartolomei, O’ Ray Wilkins e Chicco Bubu Evani (non ancora l’Uomo di Tokyo). Dietro, in difesa, davanti a Terraneo guardiano del faro, il presagio divinatorio degli Invincibili. Tassotti, Baresi, Filippo Galli, Maldini. Brividi. I ragazzi s’impegnano. Fa freddo. I gabbiani, nel prepartita, s’abbattono su bucce d’arance e pezzi di würstel sparsi sui pratoni; e dentro, lo stadio, è ancora quello senza seggiolini rossi o blu (ci sono solo distinti e parterre) e si va da una parte all’altra dei due anelli (sì, sono ancora due, e senza copertura).

ATTILA VOLA SULLA TRAVERSA

Vorrei dire, a questo punto: per farla breve. Ma non lo farò. Aristotele, nella versione primigenia tradotta dagli arabi andalusi, scrisse milletrcento pagine pergameniche per la sua Ethica. Ne scriverò meno, sì certo. Ma vorrei dirvi cosa provai quando Attila, marcato il gol del due a zero che spazza via gli spettri dello zero a zero (finirà tre a uno a Lipsia, rossoneri qualificati) si avventa sotto la curva sud mentre San Siro si contorce come un groviglio di vermi e non fa il giro del campo, non fa balletti, non si toglie la maglia per esporre tatuaggi da urban boy jungle per majorettes televisive. No. Attila il Vichingo, Vola. Balza in alto, tanto in alto. Supera con tutta la testa da guerriero primordiale la traversa, allunga, distende lampeggiante il gomito sinistro come l’ala d’un rapace a caccia sui tremila metri, e poi, di scatto, lo stringe sul legno orizzontale, e lui, Attila, resta in Volo. Appeso alla traversa (quel gesto che Ilario Buffon ha goffamente toppato agli Europei appena trascorsi). E col braccio destro Attila esulta, alza il pugno chiuso col gomito ad angolo retto verso il cielo nero come un imbarcadero e verso le gole di noi corifei in preda ai gemiti di verità assolute, incontrovertibili, rompendo cosí il muro del suono del sogno di Socrate. Ecco, quell’immagine è il Vessillo della Nostalgia, la Verità che ti porta via. È la Seconda Stigmata Rossonera.

Ilario Buffon ci ha solo provato

Lo resterà per anni. Resisterà a Cervo che esce di Foresta, al Cigno di Utrecht, all’Uomo di Tokyo, al Capitano, al Bronzo di Riace, a Smoking Bianco. (Non pensiate che vi traduca gli eponimi, non si didascalizza la poesia).

L’EUTOPIA DI SHEVA

Devo fare una precisazione, sennó non ci capiamo. Davvero PippoMio che avvinghia la bandierina nella città dell’Olimpo ha superato Sheva/Vento di Passioni di Manchester? Le cose stanno diversamente. Ora vi dico.

Quando si parla di Manchester, non si puó non parlare di Verona-Milan, o di tutti i derby persi malamente, in modo angosciante, negli anni della doppia post-serie B. E non si può non parlare di Nemesi. O di Karma. Di Anubi e dei suoi Destinofori Archivi. Manchester e Sheva non sono mai esistiti. Questa è sia Verità sia Realtà.

È l’Ucronia di Charles Renouvier. È Eutopia. Perché se fossero esistiti Manchester e i Cinque Secondi D’Eternità Del Dio Sheva, la Divina Giustizia abiterebbe questo mondo – e sappiamo che cosí non è – e per noi milanisti il giuoco del pallone non avrebbe piú alcun senso. Che senso avrebbe, infatti, continuare a palpitare per quei colori di libertà quando tutto si è gia consumato, e l’Apocalisse è gia tra noi? Non si sarebbe forse concretizzato il bilanciamento tra Karma e Darma se avessimo buttato malamente fuori in semifinale quei soldatucci pavidamente cinquemaggeschi, monotripletici, attorniati da tavolini scudettati, baûscia Prischiavvocaticchi, in maglianeroblu? E se avessimo davvero sconfitto in finale ai Calci di Rigore gli albinoneri, grevi demoni delle rive dello Stige che si spostano gretti, sempre assieme a sadici kapò col fischietto in bocca, in Duna e Tipo, alzando verso le Fertilità dell’Olimpo la sesta Coppa dei Campioni, non avremmo forse ritrovato le sorgenti del nostro destino, e non avremmo forse disinfettato definitivamente le ferite somme di quel giorno della Fatal Verona, quando noi, bambini, con la maglia a righe di lana cucita dalla mamma, aspettavamo il ragguaglio domenicale di Enrico Ameri, che arrivò, ahinoi? Capite perché Manchester 2003 non esiste. È divina Eutopia, è il regno metaparallelo di Sheva e dei suoi Cinque Secondi D’Eternità.

non è mai esistito

TERZE STIGMATE (APOGEO DRAMMATURGICO)

Esiste quindi PippoMio. Che arriverà, nella sua forma eternizzata di Pelìde Sommo, 38 anni dopo l’accoglimento della Prima Stigmata Rossonera. Del 1969 mi restano due timespot. A tre anni e mezzo di esistenza, il 28 maggio, ascoltai, mentre ero intento a dondolare sul mio cavallo di legno (riproduzione gnostica, in scala, della medesima creatura medistofelica di Odisseo Signore degli strateghi e dei sopravviventi), una voce giungere dall’apparecchio radiotelevisivo appostato sull’altro lato del camerone, opposto al grande camino; quella voce (Nando Martellini) gridava: Rivera, Rivera, Rivera! (Milan-Ajax, 4-1, finale di Coppa dei Campioni)… Lí per lí non assorbii bene quel canto che era evidentemente di contenuto teleologico, un’ugola di muezzin che chiama ineluttabilmente alla preghiera. Ma erano le Stigmate Rossonere. Che ricevetti in quell’occasione, ma che metabolizzai, in maniera definitiva, tragicamente, il pomeriggio del 20 maggio 1973. (Tanto per la cronaca e tanto pe’ cantà’ e fa’ la vita meno amara, l’altro slot che appartiene al mio conscio incosciente è la bomba di piazza Fontana, otto giorni dopo il compimento dei miei 4 anni; suonò il telefono, risposi io, perché mia mamma e mia nonna erano fuori, in quanto imperversava la bufera e loro dovevano in tutta fretta raccogliere i panni stesi; il nonno era a Milano; era stato in quella banca epicentro dell’Inganno Deflagratorio, la Nazionale dell’Agricoltura, luogo di valutazione e scambio di sementi e bestiame, un’ora prima, in qualità di fattore di un latifondista terriero; il nonno voleva rassicurare la famiglia che stava bene; io lo salutai, poi andai a chiamare la nonna e la mamma in cortile; poi, la nonna, al telefono cominciò a gridare e a piangere; e poi, le lacrime divennero sollievo, e poi ancora, disperazione per le vittime: sempre così, d’altronde: prima ti assicuri di essere vivo, di stare bene, poi puoi indignarti; però, in fondo, ho un fermoimmagine struggentissimo dentro di me, di quell’istante).

IL RICREATORE DELL’UNIVERSO

Di Orisha Rivera, Padre degli Dei, conservo poi quella figura di Oratore Primigenio del Popolo Yoruba, che col microfono in mano nel giorno della Stella DecaScudettata, sei maggio 1979 (Milan-Bologna, il più bel Zero a Zero della Storia del genere umano), catalizzò l’Asse del Pianeta Terra, e fu Testimone della Nuova Creazione del Mondo.

Poi – dopo gli abissi, pur sempre cari, di Blisset, Manfrin, della retrocessione a Cesena, di Jo Squalo Jordan – ecco l’illuminazione sulla via di Damasco di Attila Vichingo Hateley. Di seguito, le Imperiture e Illuminatorie Epifanie di Re Silvio, che realizzò i nostri Sogni ma mai il suo, allenare il Milan. E quindi, si levarono nel NoNTempo i Fasti Ubikiani di Cervo Gullit, Divinità Van Basten, Giove Baresi, Eros Maldini, il Bronzeo Weah, la Folgore dello scudetto di Perugia, il Dio Sheva, Smoking Bianco.

Infine, le Terze Stigmate.

EPILOGO DRAMMATURGICO: PIPPO, PIPPOMIO!

A seguito della disfatta di Bisanzio, Carletto Magno Imperatore non si fa sedurre dalla disperazione. La squadra di fatto resta quella. Il campionato seguente viene combattuto contro le fallaci forze albinonere fino all’ultima disfida, perduta col solito onore nel campo amico. In Champions subiamo una iniqua sconfitta dagli ultra celebrati semidei catalani, assurti a campioni grazie alla malaugurata svista dell’Arbitro Arbitrio su Dio Sheva. Poi arriva la Beffa Buggeratoria di Calciopoli e l’anno successivo, senza piú Dio Sheva – che un insulso spavaldo allenatorino lusitano l’anno successivo riuscì a disanimare utilizzando, vigliaccamente, il suo piccolino animo mourino – i Ragazzi riprendono indomiti e senza graffi nell’anima la disfida alla vita. Che sfocerà nella Grande Nemesi di Atene, TeatroTrionfante del Pelìde Pippo.

Mai nessuno nella storia del futbol era stato così. Incapace d’uno stopdipalla, Ingrediente Saliente del Giuoco Del Calcio, ma Killer Implacabile sottoporta. Carletto Magno, agli albori del suo cammino di MisterGuru, a Parma, al futuro Pelìde preferì Hernàn Crespo. Ora invece Pippo è il suo Profeta. Lo stopdipalla è rimasto quello di Paulo Roberto Cotequiño. Inguardabile. Degno d’un arcistauisp del sabato pomeriggio, ma che dico, neanche, visto che nell’Arci navigano fior di talenti che han scordato i celestiali armamenti sulle rive della quotidiana lotta del conformismo e della puritana sciatteria. Pippo però, sottorete, è The Jackal. Non sbaglia un colpo. Nella Champions 2006-2007, in una lettura frettolosa, tipica del quotidiano incedere del divenire umano, il Pelìde colleziona 673 minuti, su un totale di 1260 vissuti dagli Odini Rossoneri, comprese le due sfide dei preliminari con la Crevna Zvezda di Belgrado, e il suo score è scarso: 4 gol (2 in finale…..).

Il BelGila da Biella, pagato 24 milioni sulle unghie parmigiane nell’agosto 2005, fiata sul collo al Pelìde. Carletto Magno alterna Pippo all’attaccante biellese. Che in campionato manda la palla oltre la rete per 12 volte; in Champions Gila segnerà due gol in tutto. La sua stitichezza nel torneo della musichetta insospettisce Carletto Magno, il quale, nelle arene straniere, gli preferisce quasi sempre PippoMio. Succede così anche nella finale, Atene 23 maggio 2007. Traguardo Sommo, raggiunto grazie alle Magie di Smoking Bianco, Pavone Che Scivola Sull’Acqua, implacabile goleador di quel torneo: 10 reti in 1142 minuti giocati. Lui sgretola i diavoletti arrossiti e arrostiti della Città Ucronica.

Non farò qui la cronaca di quei 90 piú 2 minuti piú 40 secondi di quella sfida. Mi soffermerò su quel Fotogramma che vale la Terza Stigmata Rossonera. Il Fotogramma è quello del Pelìde Pippo, che dopo il secondo gol ai britanni rossicci, afferra la bandierina e, sfigurato dal Vento del Mito, grida la Veritá ai Corifei Rossoneri, accogliendo tra le sue braccia Patroclo Smoking Bianco, che gli aveva poco prima offerto l’assist del due a zero, La Sentenza.

la terza stigmata

Pellegatti, Omero instancabile di noi Corifei, grida: Pippo, PippoMio! E noi, sull’Argo Divina della Resurrezione Odina, rimbalziamo la Sacra Litania: Pippo, PippoMio!

Non c’è null’altro da aggiungere. Io sono rimasto lì, sul Falero Apocalittico, a venerare il Pelìde che avvinghia lo xiphos come se fosse la bandierina del calcio d’angolo. Ave Pelìde Pippo, a Te Sempre la Gloria.

(Qualcuno disse, vent’anni fa: Non è Pippo innamorato del gol, è il gol ad essere innamorato di Pippo. La frase venne attribuita a Mondo Sedia Alzata In Cielo Mondonico, quando allenava il Pre-Pelìde all’Atalanta. In realtà pare che la frase, epigrammatica, ecumenica, sia stata di uno sconosciuto magazziniere dello stadio Atleti Azzurri d’Italia di Bergamo).