Ti sarà inviata una password tramite email.

Quando si varca la fatidica soglia degli “anta”, è sempre dietro l’angolo il ricorso al rimpianto e alla nostalgia, al quel “ah, mica come quando eravamo giovani noi” (quest’ultima affermazione, specialmente quando sbattuta in faccia alle generazioni più giovani, è la formalizzazione dell’avvenuta involuzione in “trombone”). C’è qualcosa di fisiologico e naturalmente comprensibile nel ricordare con tenerezza e affetto i propri vent’anni (o trent’anni), un’età (solitamente) più spensierata, in cui sogni e aspettative avevano ragion d’essere (dopo i quaranta, salvo rare eccezioni, non sarà vero che ‘quel che è fatto è fatto’ ma di sicuro l’autostrada offre meno uscite). Non foss’altro perchè si parla d’un tempo in cui si era (quando va bene) una decina di kg più magri. E s’aveva qualche capello in più in testa, perlopiù del suo colore originario.

In pratica la lente distorta della propria memoria deforma: passato meglio che presente. Noi-giovani meglio che noi-“nel mezzo del cammin”. Poi però sbuca da qualche sordido archivio questa foto, e le cose allora cambiano. Il postulato di cui sopra traballa. Anzi, frana. No, non è vero niente. Avremo anche avuto anche “tutta la vita davanti”. Ma tanto meglio di oggi non eravamo. Perlomeno esteticamente. Anzi, guardandoci bene forse eravamo pure peggio.

Redazione del Resto del Carlino di Forlì, metà anni ’90, qualcosa più che vent’anni fa. Tragico “calcio a 5” outdoor, da qualche parte in un’area verde, credo dalle parti di Cà Ossi. Una domenica mattina in cui stare a letto sarebbe stato certamente preferibile. E comunque prendersi la briga di portar con sé una sciagurata macchina fotografica, e addirittura devolvere una preziosa foto del proprio rullino a simile ributtante evento, meriterebbe – a prescindere dalla prescrizione, come minimo una settimana di gattabuia alla Rocca. Ma tant’è: qualcuno sentì il bisogno di tramandare ai posteri questo fantozziano agglomerato, questi scapoli senza ammogliati, questi carnascialeschi descamisados.

In piedi da sinistra: Michele Pieri. Collaboratore al tempo dedito perlopiù al basket, prima di migrare nel Milanese per fare il pubblicitario (leggende, più o meno metropolitane, sostenevano che lui in persona avesse addirittura ideato uno dei primi spot Vodafone con Megan Gale). A Michele, orgoglioso indossatore di uniforme di un Fc Barcelona in quei giorni dominante in Spagna ma piuttosto moscio in Europa, ben lontano dalle glorie del tiki taka, quando a “pallone” gli passavi la sfera non te la restituiva mai. S’avvitava su di essa, componeva bitorzoluti dribbling sul posto della durata media di 33 secondi cadauno. Poi, forse, se non gliel’avevano scippata, appoggiava lateralmente. Ma tu eri andato al bar.

Secondo da sinistra: io. Scrivevo di ping pong (inviato al seguito dell’Edera: dj, metti Toda Joya), di calcio (Forlì e minori) e di altre avvilenti discipline. Tutto tranne il basket da cui ero interdetto in quanto capo della curva. Avvolto da un capo riconducibile al traballante merchandising Telemarket (merchandising non molto peggio di quello della Pallacanestro 2.015 odierno, in cui modestamente ho voce in capitolo, sic), colpisco nella circostanza per l’insolito pallore che fa della mia sagoma un’anemica tintaunita. Forse i centri abbronzatura, che mi pareva di ricordare frequentassi già allora, in quei giorni erano chiusi per sciopero. O forse chissà, qualche ministro della salute aveva messo le lampade U.V.A. fuorilegge. Il capello proponeva un ciuffo da una parte che edificavo quotidianamente a botte di gel, più che altro perché, narcisisticamente, mi piaceva da morire quando mi dicevano che assomigliavo a Nicola Berti, il sex-symbol dell’epoca.

Terzo da sinistra in piedi: boh.

Quarto da sinistra in piedi: Massimiliano Pandolfi, detto Massimo. Giornalisticamente il più alto in grado in campo, in quanto responsabile di Romagna Sport. Era il Colpevole, l’ideologo di questa improbabile finale di Champions. Dallo scatto emerge il tentativo di conservazione di un bulbo in partenza con biglietto di sola andata, pizzetto folto a tentare un’improba compensazione tricologica: un vero disastro, se paragonato al fascinoso cinquantenne d’oggi, che rasa il cranio a zero senza remore e ‘veste’ con carisma una voluminosa barba che ne fa un Oscar Giannino romagnolo e più bello. Ecco, Massimo incarna perfettamente il concetto secondo cui non è affatto vero che a trent’anni si era sempre e comunque meglio che a cinquanta. Talvolta, spesso: non sempre.

Quinto da sinistra in piedi: Gianni Lorenzoni. Frangettona calata sulla fronte, baffo deciso, fisico rotondetto: scriveva di calcio, basket e tennis. Sentenziava, più che altro. Non privo di una gradevole ironia che lo rendeva simpatico a tutta la redazione. Collaboratore a cottimo, come me, pagato 10.000 lire ad articolo. Per il sottoscritto, che per le esigenze primarie era rigorosamente attaccato alla mammella di Hollywood e delle VHS, scrivere era uno straordinario gioco. Lui però era ben più grande di me, e non ricordo facesse altro: di certo non poteva mantenersi con gli articolini del Carlino. Si narrava infatti lo finanziasse la sua misteriosa donna. Di cui però non si sapeva nulla, credo nessuno l’avesse mai vista. Con altrettanto mistero, mi si dice, un giorno come un altro smise di passare in redazione e fece perdere le sue tracce. Chiamate la Sciarelli.

Accosciato, primo da sinistra: Mario Proli da Predappio. Collaboratore. Credo scrivesse di spettacoli e fosse una specie di corrispondente dalla città che diede i natali al Duce. A proposito: nipote dell’allora segretario del Movimento Sociale Italiano Destra Nazionale, Gastone Proli, dalle cui idee politiche prendeva accuratamente le distanze. In modo convincente: entrò infatti nell’Ufficio Stampa del Comune di Forlì, dove lavora tuttora.

Secondo da sinistra: Lorenzo Guadagnucci. Toscano di Pescia, era in cronaca, scriveva benissimo. Firmava quasi sempre lui una rubrica anonima che si chiamava “Messaggi in Bottiglia”, in cui il Carlino scriveva una lettera al vetriolo a qualche personaggio più o meno in vista. Qualcosa che oggi i giornali – tutti, non solo il Carlino – non avrebbero più le palle di fare. Ricordo segnatamente un “Messaggio in Bottiglia” destinato a Franco Varrella, allenatore del Forlì Calcio e discepolo di Arrigo Sacchi. Lorenzo lo perculava magnificamente perché, proprio come il suo mentore, di cui sarebbe stato allenatore in seconda a Usa ’94, usava fighissimi neologismi come “ripartenza” (al posto di “contropiede”) oppure “esercitazioni” (anziché “allenamenti”). Lo ‘scienziato’ Varrella ci fece sapere che la cosa gli aveva fatto girare discretamente le palle. Guadagnucci diventerà un personaggio pubblico nel 2001, quando – un pò per dovere di cronaca un pò per convinzioni politiche sincere – era al G8 di Genova a manifestare. Scelse di pernottare alla Diaz la sera sbagliata e finì nel tritacarne sudamericano. Prese una caterva di botte che raccontò a seguire con interviste, libri e il privilegio di poter raccontare l’inferno di quella notte con discreta cognizione di causa.

Terzo da sinistra: Fabio Gavelli. Giovane giornalista, all’epoca col privilegio dell’assunzione. Affiancava Pandolfi in Romagna Sport. La calvizie è molto penalizzante finché tenti gestirla, mentre incide meno di quanto si pensi nel momento in cui risolvi la cosa rasando tutto a zero. Dopo lo shock iniziale, è sempre molto meglio. Infatti Gavelli, proprio come Pandolfi, ha un’aria nettamente più giovanile oggi di quanto non l’avesse allora. Quando si presentava in redazione, fedele alla pietra miliare di Toto Cotugno, “con l’autoradio sempre nella mano destra”. Circa l’eventuale canarino alla finestra non ho notizie. (Spero mi saluterà ancora, al Palafiera, dove viene tutt’oggi a seguire l’Unieuro per il giornale. Ma se mi manderà a cagare capirò).

Ultimo accosciato: Andrea Degidi. Con la buonanima di Zavalloni al giornale faceva gli spettacoli. Era invece portiere, con guanto d’ordinanza, negli happening calcistici. Orgoglioso collezionista di tutte le buste che riceveva in cui veniva storpiato il suo cognome (D’Egidi, De Gidi, D’Egidio e molte altre variazioni sul tema), disponeva della scrivania più incasinata che abbia mai visto in vita mia. Agenda con migliaia di contatti. Passò da Firenze a seguire l’on-line del QN quando l’on-line stava partendo, tornerà a Forlì a fare il capo-pagina, prima di essere spostato con la stessa carica a Ravenna, dove lavora tuttora.

Ok – direte – grazie per i ritratti di questi portenti, ma la partita poi come andò a finire? Non ricordo il risultato. Ricordo solo che al 4′ del primo tempo (quindi subito) frantumai involontariamente il sopracciglio di Massimo Pandolfi in uno scontro di gioco. Lui corse sanguinante all’ospedale. Ma noi tirammo diritto. The show must go on. Certo, in un clima che si era fatto spiacevole. Quella volta non ci divertimmo come le altre. Alla fine Massimo se la cavò con un taglietto nel sopracciglio, che conserva tutt’ora. All’epoca faceva molto Dylan di Beverly Hills 90210. Non tutti i mali vengono per nuocere.