Nel libro pubblicato a settembre con la casa editrice Add Meo Sacchetti racconta, tra le altre cose, come la dimensione individualistica sia sempre stata e stia diventando ogni anno di più un fattore determinante della pallacanestro. ‘Il mio basket è di chi lo gioca’ significa esattamente questo: che in campo l’ultimo pallone – ma anche tutti gli altri, a pensarci – non pesa tra le mani di chi è in piedi a sbracciarsi davanti alla panchina, né di chi tifa, né di chi racconta la partita e né tanto meno di chi, prima e dopo, spiega come sarebbe dovuta andare. Lì con l’avversario che ti suda addosso, le braccia alzate dei compagni e i timpani ridotti a lamiere, l’intuizione spazio-temporale del singolo giocatore, la sua capacità (ultrasensoriale?) di predire i micromovimenti degli arti avversari in diacronia con la propria fisicità gioca un ruolo che non è preventivabile un secondo prima, figuriamoci nel precedente timeout. Questo per dire che la giocata suicida, pazzesca e infine decisiva di Blackshear contro Treviso è stata sì, anche una botta di culo. Ma c’è molto, moltissimo altro dietro. E anche Garelli c’entra qualcosa.
Nell’ampio spettro delle convinzioni alle quali si rendono adepti i coach di pallacanestro, Garelli sta nella categoria di quelli che non pretendono il controllo assoluto su tutte le azioni. Diciamo che se 0 è Sacchetti e 10 sono Bucchi e Messina, Garelli è in zona 3. Figuriamoci se in campo nella sua squadra ci sono Paolin, Vico e due americani. Con gente così ha senso metterla in piedi a grandi linee, o meglio preparare un sistema: talento e follia sono pregati di fare il resto. E così in effetti è andata, più o meno.
A 23″ dalla sirena Forlì è sotto di 1 e rimette in attacco. Treviso avrebbe ancora un fallo da spendere ma le indicazioni di Pillastrini vanno evidentemente in direzione opposta: si gioca. Garelli invece vuole, immaginiamo, che il tiro lo prenda uno tra Vico e Blackshear. Su queste due opzioni – 23 secondi sono un’eternità – mette in piedi il suo sistema.
Batte Ferri, che di sponda con Rotondo comincia l’azione d’attacco. Vico esce sparato dall’area per ricevere fuori dalla lunetta dei tre punti, e qui c’è la prima sliding doors: Blackshear fa per andare a prenderla ma prima di lui Rotondo gioca il pick and roll, che però non funziona: Fantinelli resta francobollato all’argentino dell’Unieuro, che si butta dentro ma non trova lo spazio di tiro e non ha abbastanza energia per andare dentro lo stesso. Prima opzione, adios.
stanchi, stanchi, stanchi, tutti
Esaurito senza successo il tentativo di affondo, Vico scarica la palla a Crockett dopo avergliela praticamente portata nelle mani. Senza ritmo, ormai esausto e con Perry addosso, Jaye finta il tiro e poi si trova senza più soluzioni (in cronaca Gira dice ‘si incarta’). No, aspetta. Nel frattempo Blackshear ha continuato la sua corsa a mezzaluna ed è arrivato proprio lì. A prendersela, da fermo e con la faccia rivolta dalla parte sbagliata del campo.
Wayne and pray
Qui avviene la catarsi, la liberazione da tutte la frustrazioni e le sofferenze vissute nei precedenti 39 e passa minuti. Mister 130mila Wayne non è mai sceso ed è distrutto (anche troppo, no per un ragazzone della sua età?) per cui in linea con le azioni precedenti, nelle quali aveva preso una stoppata e non era neanche arrivato al ferro, prende un tiro che non è per niente dominante, anzi: la lascia andare coi polpastrelli cadendo all’indietro. Gli ingredienti per rimpinzare la domenica di rimpianti ci sarebbero tutti.
E invece, ciuf
Nonostante l’evidente stanchezza di tutti i giocatori che sono entrati in possesso palla, la difesa schierata e un timing nel complesso malriuscito, nonostante in quei secondi il piano fosse spaventosamente e sempre più inclinato verso nordest, la palla entra e Forlì vince la partita. Sacchetti batte Bucchi. Blackshear batte tutti.