Il normale equilibrio di una società sportiva sta tra il corretto rapporto tra dirigenti, allenatori e giocatori. Ovvio che il rapporto con questi ultimi, soprattutto quando sono bambini è influenzato dalla presenza attiva delle famiglie (come abbiamo già avuto modo di spiegare nel pezzo precedente).
Però ultimamente, con la crisi quasi irreversibile dei dirigenti in tutti gli sport ed a tutti i livelli, si assiste ad un fenomeno nuovo destinato a cambiare in maniera sostanziale il rapporto di equilibrio storico tra i tre gruppi di cui sopra: i dirigenti genitori.
Torniamo per un attimo alle società come dovrebbero essere. Ognuno ha il suo ruolo ben definito ed ognuno cerca di svolgere meglio che può il lavoro che deve. Il mio presente da dirigente, non essendo mai stato né giocatore né allenatore, fa sì che il mio unico lavoro sia quello di scegliere bene lo staff ed i tesserati in base agli obiettivi stagionali e di metterli semplicemente nelle condizioni di far bene il proprio lavoro. Il rapporto con allenatori e giocatori è coerente e logico.
Nel caso in cui qualche elemento finisca per sparigliarsi, ovvio che l’equilibrio viene meno e serve ripensare ai complessi rapporti all’interno di un gruppo.
Mio figlio è un tesserato? Bene, lo tratto come gli altri o sono con lui più severo (perché gli altri non pensino che lo favorisco?). Cerco un allenatore che faccia evolvere il gruppo o mi focalizzo sugli aspetti di crescita di mio figlio, scegliendo un coach che mi garantisca un percorso di miglioramento soprattutto dove lui è poco incline? L’obiettivo del gruppo viene prima di quello del singolo o avendo in un certo senso ribaltato le dinamiche normali, finiscono anche per ribaltarsi gli obiettivi?
Non c’è di sicuro una legge scritta che regolamenta il buon funzionamento di una società sportiva, ma siamo sicuri che “mescolare le carte”, già quando il mazzo presenta diversi problemi, sia la soluzione migliore? Io non credo, anche perché ritengo il ruolo di genitore già utile in quella che è la normale dinamica di crescita sportiva di un ragazzo.
Un genitore deve fare il tifo per il figlio. Aiutarlo a capire le dinamiche di un gruppo, spronarlo all’impegno quotidiano, incoraggiarlo e anche criticarlo se ha comportamenti non consoni. Ovviamente non lo deve fare supinamente accettando tutto quello che la società sceglie. Con allenatori e dirigenti ci si deve confrontare e si possono chiedere spiegazioni sulle scelte societarie. Ma il sostituirsi a questi ultimi con una critica continua e logorante, finanche a prenderne il posto, non credo sia alla base della risoluzione del problema. Magari ci si potrebbe chiedere persino se dietro a questa lenta moria di dirigenti ed appassionati non c’è come prima causa il rapporto sempre conflittuale con le famiglie dei ragazzi, quasi sempre pronte a contestare (spesso a prescindere), troppo spesso avare invece di pacche sulle spalle.
Il ruolo del dirigente genitore pone tutti questi aspetti alla massima potenza. Sono un allenatore che ha in gruppo il figlio del presidente e magari di un genitore importante che fa da sponsor. Come faccio? Li tratto come tutti gli altri, dedico loro maggior attenzione sperando che influiscano (anche indirettamente) nella mia conferma? Se mi applico bene sul loro miglioramento posso sperare di venir riconfermato magari anche se non raggiungo gli obiettivi di fine stagione?
Uno dei miei punti fermi, essendo appassionato di psicologia applicata alla sport (e potendo contare su una biblioteca molto nutrita in materia) è “l’assioma della pizza”. Sono certo infatti che un qualsiasi gruppo sportivo possa trovare maggior amalgama da una bella cena di gruppo piuttosto che da due ore di impegnativo allenamento. E che lo debba fare senza l’ingerenza di elementi esterni al gruppo, ovvero genitori, allenatori, dirigenti, ecc. Già nella dinamica di una tavolata si capiscono molte cose sull’armonia di una squadra. Ci sono quelli che si evitano, quello che si mette a capotavola, quello che fa l’ordine per tutti, quello che rompe i coglioni su tutto, ecc. Perché dico che il gruppo dovrebbe fare a meno di allenatori e dirigenti? Perché ciascun giocatore dovrebbe aver la possibilità di mettere in discussione le scelte dei vertici e di farlo in un contesto di gruppo. Quante volte mi è capitato di provocare il gruppo che percepivo sfilacciato per metterlo tutto compatto contro di me. E quante volte da questa semplice operazione sono nate delle prove di carattere solo con l’intento di “farmi vedere che non capivo un cazzo”.
Ecco, ora proviamo a pensare ad un giocatore che contesta un suo vertice con il gruppo, poi però se lo ritrova a casa per cena. Non è una cosa un po’ troppo complessa da saper gestire, soprattutto se parliamo di ragazzi?