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Cos’era il basket per me nel 1986? Poca roba. Qualche svogliato tiro a canestro in quello che oggi è il Playground Margheritini, tra un calcio e l’altro al pallone (ma con un 46 dove pensavo di andare?). E un ricordo, quello sì, dell’estate di tre anni prima, quando il “campetto” di via Dragoni era stato occupato – ma avevamo accettato la cosa di buon grado – dal luna park. “Tarzan Boy”, sparato dall’impianto audio del calcinculo, faceva vibrare fino a mezzanotte i vetri della mia camera da letto. Mentre io, mio fratello Davide e mia madre scendevamo, una sera – come ogni sera, quelle sere – di sotto per andare a sputtanarci qualche milalire tra la “casa dei fantasmi”, il “Brucomela” e l’atroce “pesca delle rane”, mi domandavo cosa potesse mai far desistere papà da un simile, irrinunciabile programma. Cosa potesse esserci di così importante da farlo stare in casa davanti alla televisione. Ok, era la sera del 4 giugno 1983 e la Rai dava in diretta Italia-Spagna, finale degli Europei di basket a Nantes. Embè? Non capivo. Scesi di sotto, feci la mia serata da BabyLucignolo e rientrai giusto per le fasi conclusive della partita. Nemmeno le guardai, mentre Giorgio, mio papà, inspiegabilmente si agitava.Vidi sullo schermo – e chissà perché cristallizzai nella mia mente, esattamente come fecero i fotografi dell’epoca nelle loro pellicole – il bacio alla palla di Caglieris sulla sirena che sanciva il mitologico “Oro di Nantes”. Il bacio alla palla di Caglieris, con sotto la voce di Aldo Giordani, sarebbe rimasta l’immagine-icona di quel trionfo sportivo nazionale di cui si sarebbe parlato nei lustri a venire. Un anno dopo l’estate che mi aveva appassionato al calcio, un’estate dopo il Santiago Bernabeu, Pablito, l’urlo di Tardelli, le apnee di Bearzot e la debordante pipa di Pertini, quella sarebbe stata la “risposta” della pallacanestro: il bacio alla palla di Caglieris.

Forte – si fa per dire – di questo isolato e sgranatissimo flashback sulla pallacanestro, poco più di tre anni dopo, domenica 19 ottobre 1986, grazie ad un paio di biglietti omaggio portati a casa da mia madre che aveva fatto la spesa alla Conad (cosa può fare, alle volte, un biglietto omaggio), in un uggioso pomeriggio forlivese, accompagnato da mio padre, all’età di anni 13, mi recai per la prima volta in vita mia al Villa Romiti. In palinsesto JollyColombani Forlì – Stefanel Trieste, valevole per la sesta giornata. La Jolly tutta bianca del Piero Pasini I a Forlì, un Piero Pasini in forze, robusto, incazzoso e baffuto, è quella di Restani e Landsberger, con Lardo, Lamperti e Bon in quintetto; dalla panchina Ferro, Biffi, Malcangi, Nunzi ed Emiliani, talvolta in rotazione col 14enne Marcello Casadei! Avvio di stagione intrigante, quello del 1986/87, anno che sarebbe logisticamente cominciato al Villa Romiti e finito nel neonato Palafiera. Mentre sportivamente sarebbe finita, quella stagione sportiva, per la Jolly che tanto bene aveva fatto nel girone d’andata, all’alba del girone di ritorno, quando sotto 1 metro di neve la Benetton Treviso vinse a Forlì lo scontro al vertice tra le due capoliste appaiate, minando definitivamente le certezze forlivesi. La Jolly chiuse in calando e ai playout non ebbe nulla di interessante da dire. Una JollyColombani, quella, che non entrò nei libri di storia ma che è tatuata nel mio cuore: è “la prima squadra della mia vita”.

Quel 19 ottobre 2016 per Giorgio Girardi, al contrario del figlio 13enne, non era il debutto al “basket dal vivo”. Ben prima di aver visto in televisione la finale di Nantes, da ragazzo aveva fatto in tempo – essendo veneziano – a vedere la Reyer giocare alla Misericordia, una cattedrale nel cuore di Venezia che era stata sconsacrata e convertita alla pallacanestro in assenza di un palasport degno di questo nome. Lui, come me fino ad allora, aveva però sempre preferito il calcio, che era anche lo sport che aveva praticato. Quanto a me: quel giorno capirò che da quel momento qualcosa sarebbe cambiato. Così avrei trascorso le domeniche della mia vita.

Come due alieni che vagavano intorno ad un impianto che non conoscevano dopo aver parcheggiato lontanissimo, causa una calca d’automobili perfino inspiegabile, trovammo un ingresso e prendemmo posto nella curva dei Romiti opposta a quella della tifoseria organizzata forlivese. Che all’epoca – dopo lo scioglimento dei Panthers, i “mitici Panthers”, quelli degli aneddoti mitologici, chissà quanta verità e quanta mitologia – aveva il nome di Fossa dei Leoni. Non so chi potè, all’epoca, avere la sconcertante idea di chiamare il gruppo Fossa dei Leoni, dal momento che dal 1970 il nome era già stato ampiamente opzionato dai nemici fortitudini, ma tant’è. In quegli anni era nel gergo forlivese dire “vado a vederla nella Fossa”. Credo mancassero ancora una quarantina di minuti, e dentro quel riscaldamento di JollyColombani-Stefanel c’era già un sacco di gente: ecco perchè non si trovava un buco per la Opel Ascona di mio padre! E infatti prendemmo posto in alto, molto in alto, al punto che a causa delle travi orizzontali del bizzarro soffitto che non mi impegnerò a descrivere (vedere o ricordare per credere: è l’unica) mi costringeranno durante la partita a contorcermi al ribasso per scrutare il canestro dall’altra parte.

Ora qui va detto che fino ad allora ero stato abituato ai gelidi e al tempo stesso desertici gradoni cementizi del Morgagni, dove con gli amici giocavo a fare l’ultrà della già allora sventurata franchigia biancorossa, simulando che un secchio di vernice giallo potesse essere un tamburo: vedere una simile massa di gente ad un evento sportivo cittadino pareva qualcosa di sconvolgente. Tutti pigiati stretti-stretti, in un accalcarsi che dava calore. Quando poi la Jolly entrò in campo 30′ prima del via per il riscaldamento, esplose un boato ed un applauso fragoroso, affettuoso, che sprigionava un senso di vicinanza tra il pubblico e la squadra che mai avevo toccato così da vicino. Mi parve di “sentire”, verbo da declinare nel suo significato di sensazione profonda, che Forlì amava il basket, lo tifava, ci si appassionava. Seguì un “Jolly ale Jolly ale Jolly ale ” (sul ritmo del britannico “Here we go”): un coro fatto da più di 13 adolescenti semi-scappati di casa, seguito con le mani da diverse centinaia di persone, che mi parve più potente di un God Save The Queen cantato da ottantamila a Wembley. Una folgorazione da cui non mi ripresi più.

In basso a sinistra rispetto alla mia postazione, tutt’altro che lontani da me, un manipolo di ultras triestini, forse una cinquantina. Drappi arancioneri (erano i colori della Stefanel), il capo-ultrà con una zazzerona che alzava un repertorio in verità asfittico: “Oh oh… Stefanel!” e “Tri-e-ste!””. Non ricordo animosità, nessuno li insultava, le curve mi pare si ingnorarono. Non era sempre così, in quegli anni: alle volte una parola tirava l’altra e volavano sani e robusti scapaccioni. Cazzate tipo “gabbie” o settori ospiti non le avevano ancora inventate, di fatto i triestini erano mischiati ai forlivesi, ma non successe davvero nulla.

In campo, già, c’era anche il campo, la Jolly spazzò via la Stefanel di un giovane e aitante allenatore slavo di nome Boscia Tanjevic, il cui playmaker nano – Francesco Fischetto – mi domandavo – nella mia ignoranza – come diamine facesse a giocare ad uno sport per gente alta. La Jolly vinse di 20 (83-63), il Villa Romiti si era riempito, piano piano scoprivo i vari cori per i giocatori (“Lode a te, Marco Lamperti”), che il “Toro” era Landsberger (mio dio, è pelato, nel mio immaginario il giocatore di basket americano era nero e muscoloso, non bianco e calvo!), insomma ero felice come se non avessi mai seguito altro prima di allora. Forse perché effettivamente non seguii altro successivamente ad allora: perlomeno non con quell’esondante trasporto.

La mia espressione (ri-cito quanto dissi nell’audace intervista che Riccardo Fantini mi fece sul Carlino nella primavera del 2011) la rividi tanti anni dopo “pari pari” nel volto del giovane protagonista del film (trasposizione del libro di Nick Hornby) “Febbre a 90”. Il ragazzino entra per la prima volta ad Highbury (col padre, peraltro) per vedere l’Arsenal: estasiato, sguardo perso nel vuoto, introietta la certezza che quella cosa lì sarà per sempre. Credo, sempre per stare nel parallelismo col film, che ci sia stata, più avanti, forse qualche anno dopo, una volta in cui mio padre mi disse ciò che il padre di Febbre a 90 a un certo punto dice all’ex-bambino divenuto ragazzo: “Credevo fosse passata la fase in cui andiamo a vedere la partita”. Cosa risponde il figlio nel film? “Papà, quella fase non passerà mai”. Ecco, io devo aver risposto uguale.