Una vulgata frequente nel mondo sportivo vuole che alle riunioni degli allenatori si scriva alla lavagna che la squadra ideale è “una squadra di orfani”. Questo per mettere subito in luce uno degli aspetti più complessi da gestire in una società sportiva, ovvero il rapporto con il genitore.
In un contesto sociale dove ormai è saltato qualsiasi valore alle competenze, quindi tutti sono tuttologhi di qualsiasi cosa, già il primo approccio di un genitore con una realtà sportiva non è dei più logici. Non porto mio figlio in quella società o da quell’allenatore perché gli riconosco la capacità di saper lavorare bene o perché mi piace il modello educativo-sportivo che propongono. Lo porto invece nella società più vicina, o in quella dove va l’amico, quasi sempre senza conoscere né le persone che compongono la società, né i valori educativi, né le loro ambizioni e l’ideale sportivo che si propongono.
Paragone che chiarisce subito le idee. Ho voglia di pizza e mi piace la pizza napoletana. Attraverso la città cercando la pizzeria napoletana migliore, quella che usa ingredienti di prima scelta e che magari ha riconoscimenti e buone recensioni, o mi fiondo dal kebab baro sotto casa che fa anche la pizza, lamentandomi che utilizza la mozzarella in confezioni industriali e che la sua pizza non ha nulla di napoletano?
Altro elemento utilizzato nella scelta della società, oltre alla vicinanza, sono i risultati delle squadre. Più la società è in alto nelle classifiche più logica vuole che sia in grado di sviluppare talento e dunque di mettere in risalto le evidenti doti che io genitore vedo in mio figlio quando è al campetto con i suoi amici.
Quindi il genitore medio di oggi accompagna il figlio in una società che ha queste due caratteristiche: vicina e con squadre che ottengono buoni risultati. Cosa dovrebbe guardare invece?
Intanto la società. Che modello sportivo ed educativo ha? Ha riconoscimenti federali? Le persone che dirigono che tipologia di finalità hanno (volontariato, reddito, ambizione, ecc.)? In che strutture operano? Sono normativamente in regola, sono a posto con tutte le norme per la prevenzione e la sicurezza? Consentono di poter lavorare in buone condizioni tutto l’anno?
In secondo luogo lo staff. Gli allenatori che tipo di qualifica hanno? Ci sono laureati in scienze motorie? C’è un modello agonistico che preveda lo sviluppo atletico motorio del ragazzo o l’unico obiettivo è tirare la palla nel cesto o in porta? Gli allenatori sanno lavorare con i ragazzi di quell’età? Ne sanno capire gli umori, coltivando il desiderio di lavorare, impegnarsi e migliorare a prescindere dal risultato o dal fatto che non si sia titolari? La finalità del gruppo è quella di scoprire l’eventuale talento da “vendere” alle società più titolate o quello di far crescere un gruppo che abbia come obiettivi quello del divertimento e dell’impegno? Hanno fatto corsi per la sicurezza e la prevenzione? Sanno come comportarsi in caso di infortunio o di problema?
Se in questi aspetti la società è forte e ferma nelle convinzioni, ed ha un modello riconosciuto, chi la avvicina vede un rapporto logico e chiaro tra i suoi desideri e il metodo di lavoro della società. Ed ovviamente la conflittualità tende a ridursi.
Ma molto spesso la tendenza è quella opposta. Le società sono piene zeppe di famiglie che non conoscono né la programmazione né i metodi utilizzati. Quindi al primo appuntamento agonistico l’ovvia reazione dei “novelli procuratori” è la seguente:
* Mio figlio parte titolare e gioca molto = società sana, dirigenti che capiscono, allenatore grande intenditore di sport
* Mio figlio gioca ma insieme a tutti gli altri bambini (anche a quelli che sono molto indietro) = società che tende a prendere molti bambini per far cassa tralasciando gli aspetti sportivi, dirigenti che vogliono accontentare tutti per non discutere con nessuno, allenatore bravo ma che se fa giocare tutti non vincerà mai
* Mio figlio non gioca o gioca pochissimo = società incompetente, dirigenti che fanno giocare o il figlio dello sponsor o quello dell’amico che infatti è anche accompagnatore, allenatore che dovrebbe darsi all’ippica
Ci sono delle varianti affascinanti. Nella mia personale esperienza mi è capitato il genitore contento che il figlio non giocasse mai nella squadra vincente, “perché comunque respira l’aria di un gruppo vincente”. Quello che in tribuna chiamava la zone-press “perché diobono sto allenatore non li allena a difendere”. Quello che ogni anno li porta in una nuova società perché è quella che l’anno prima ha vinto di più (con buona pace del ragazzo, potrà mai farsi amici con un nomadismo di questo tipo?). Quello che “ho visto su youtube i metodi di allenamento del Barcellona, noi perché non li facciamo?”. E potrei, giuro, andare avanti all’infinito.
Chiudo questo primo appuntamento di riflessione sulle giovanili, con un esempio pratico e semplice.
Paolo Maldini ha fatto la parte più importante della sua crescita giovanile (negli anni delle elementari e medie) nel campetto della parrocchia nel suo quartiere di Milano. Per chi come me ha sui 40 anni, l’immagine delle parrocchie degli anni 80/90 è quella di posti molto frequentati, al pari dei campetti che oggi sono abbandonati a livello vergognoso. Bambini di ogni età, tempo di gioco dalle 14.00 (anche prima a seconda di quanto veloce eri a mangiare) fino alla chiamata della mamma, spesso ben oltre il tramonto. Qualità di compagni ed avversari mista, dal fenomeno a quello che non è in grado e gioca solo perché si è dispari. Coppe vinte, riconoscimenti, medaglie, premi individuali : nessuno. Unico vezzo all’ambizione personale, se sei forte chi fa le squadre ti sceglie subito, altrimenti vieni scelto quando ormai l’ossatura è definita.
Ecco, cosa insegna questo approccio così diverso e inusuale rispetto a quello che vediamo ogni giorno? Primo, se ti alleni ogni giorno per molte ore avrai molte più possibilità di diventare forte rispetto a se ti alleni solo 3 ore a settimana (indipendentemente dal fatto che nel primo caso tu abbia una maglietta rovinata qualsiasi e nel secondo un bel kit nuovo fiammante dello sponsor tecnico di turno). Secondo, allenarsi con bambini di tutte le età e di molti gradi diversi di capacità allena (e di molto) la capacità di fare gruppo e di sapersi rapportare con un gruppo. Terzo, visto che qui parliamo di giochi di squadra, fare una partitella di 4/5 ore al giorno invece che di dieci minuti alla fine di un allenamento tecnico due volte a settimana fa sì che il bambino sviluppi l’unica dote su cui si dovrebbe lavorare ad una certa età: il divertimento. Quarto ed ultimo aspetto: fare una partitella di 4/5 ore al giorno significa fare almeno una decina di partite dove si arriva ai 10. Il che vuol dire che quando a casa ti chiederanno se “hai vinto”, il fatto che tu possa rispondere “un po’ abbiamo vinto, un po’ abbiamo perso, non me lo ricordo”, ti mette al riparo dalle ansie e dalle ambizioni del genitore di turno. Almeno fino alla prossima volta.