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I giornalisti forlivesi temono due cose la domenica pomeriggio: gli incidenti al Muraglione e la vittoria di Andrea Dovizioso in Motogp. Ma se il primo è un evento funesto e purtroppo molto frequente – tra noi fotografi ormai abbiamo il calendario: a inizio estate ad esempio gli incidenti sono più frequenti perché, crediamo, i ragazzi tirano fuori la moto dal garage e ancora non hanno “la mano” – il secondo era diventato una specie di Aspettando Godot: due vittorie in nove anni di Motogp nonostante le mille occasioni, i duemila secondi posto e centomila terzi e quarti, in ogni condizione possibile di pista, gomme, meteo, ombrelline, moto e avversari. Andrea ha speso la sua quasi intera carriera da predestinato, sì, ma del podio: una specie di Roma applicata alle due ruote. C’è il MIlan di Ibra? Bel campionato ma non basta, seconda. Poi come si fa a competere con l’Inter di Mourinho? Impossibile nonostante il gioco frizzante, Mancini, Totti e Spalletti. E quando l’Inter crolla, allora? Tocca alla Juve di Conte. Ora però direte: ok, ma cosa c’è da temere nel trionfo di un concittadino, gufacci? Ci arrivo.

La telefonata da Bologna.

“Carissima redazione di Forlì, avete visto il trionfo del vostro enfant prodige? Merita senza dubbio due, tre, forse anche quattro pagine dell’edizione locale con approfondimenti, foto e interviste dalla sua città!”. Tutto giusto, giornalisticamente impeccabile. Il problema è spiegare agli uffici centrali che, caso più unico che raro – in città non ci sono fans club, ritrovi di tifosi per vedere le gare, bandiere, preti che scampanano sulla bandiera a scacchi. Non c’è nulla, zero, il silenzio più assoluto. L’unico a cui si può telefonare, e che risponde sempre con enorme gentilezza, è il padre Antonio. Nessuno meglio di Andrea Dovizioso – tanto timido e riservato da diventare ostico – rappresenta gli impacci della città di Forlì ad uscire dal proprio guscio di mediocrità. A mettere orgogliosamente il naso fuori di casa, a mostrarsi felice, vincente, invidiabile. Ottimista.

entusiasmo

C’era (una volta) un fan club a Santa Maria Nuova. Chiuso. Dopo la vittoria di Barcellona – per chi non lo sapesse Dovizioso ha vinto le ultime due gare consecutive, prima al Mugello e poi in Spagna, ed è a 7 punti dalla testa del Mondiale occupata da Vinales – i compaesani di Malmissole e Poggio hanno messo su qualche striscione in via Due Ponti e davanti alla casa dei genitori. Niente di clamoroso ma almeno la testimonianza di una comunità che celebra, con un pizzico di assurdo imbarazzo (sia lui che la mamma erano in casa ma non sono voluti uscire, neanche per una foto) il suo fantastico campione.

Domanda: “Tifa per Valentino o per Andrea?”. Silenzio. “Tutti e due”. Ora va bene che Rossi è un’icona planetaria, una leggenda vivente, probabilmente uno dei 4-5 sportivi più conosciuti al mondo, parla romagnolo e Tavullia è a 50 minuti da Forlì. Ma se il tuo vicino di casa diventa il suo rivale e un plausibile campione del mondo, l’ago della tua bilancia non si sposta naturalmente verso la prossimità geografica? Pare di no. E in tutto questo un ruolo lo ha giocato e lo sta giocando, anche il carattere strictly reserved di Andrea. L’antidivo. Anzi, l’antiDovi.

Nel circolo che lo ha visto crescere ad esempio non c’è esposto un suo casco. Non una tuta, niente di niente. Tutti in paese raccontano di un ragazzo gentilissimo, dolce, sensibile, uno che merita il successo per l’impegno e la volontà messa fin da piccolo nel suo sogno. Gli vogliono bene, anche tanto. Ma in pochissimi a Forlì, Malmissole, Poggio lo conoscono davvero. C’è una sottile pellicola, quasi impercettibile eppure resistente a 15 anni di esposizione mediatica, che tiene le distanze tra Andrea Dovizioso e la sua città: sarà la vittoria di un Mondiale a romperla? Magari. Perché sarebbe giusto così, dopo quella carriera. Perché ha talento. Per Forlì. E poi per levare dall’impaccio i poveri giornalisti forlivesi. Perché “Saluta sempre quando lo incrocio” non è un gran titolo, se ci pensate.