Nelle settimane scorse si è parlato molto, anche e soprattutto grazie a Piazzale della Vittoria, dell’arrivo prima, e del mancato arrivo poi, di Paolo Carasso a Forlì per coordinare il vivaio di OneTeam.
Come a tutti (o quasi) coloro che sanno, più o meno in profondità, chi è Paolo Carasso e come lavora Paolo Carasso, mi è parecchio dispiaciuto per la sua scelta di rimanere agli Angels Santarcangelo. Il dispiacere mio suppongo sia certamente superiore in Filippo Cicognani e nei suoi compagni d’avventura (i quali, a differenza mia, oltre che a scrivere erano pronti ad investire). Anch’io, come loro, ero convinto che Carasso fosse davvero l’uomo giusto per fare l’unica cosa propedeutica a produrre, qui in città – oltre ad una marea di sterili chiacchiere – anche qualche eventuale Giocatore Di Basket: formattare e reinstallare il sistema operativo del basket giovanile a Forlì.
Carasso, premetto, è un tipo non semplicissimo. Dietro ad un involucro da Nerd maturato, questa specie di Bill Gates in salsa rivierasca cela infatti un ego ipertrofico. Il suo sparare cannonate vibranti contro tutti coloro che egli non reputi alla sua altezza (cioè l’Universo Mondo), lo rende mediamente antipatico ad un mondo, il suo, in cui la schiettezza è un concetto molto predicato ma poco praticato. Per non parlare dell’ardore supplementare che Carasso riserva a chi abbia osato interferire con le sue vicende professionali, fino al caso-limite di Cedro Galli, maledetto in eterno per averlo rimpiazzato alla guida delle giovanili del Basket Rimini. Altra caratteristica particolare: in un mondo in cui il 99% dei personaggi che si intervistano tempestano il colloquio di “questo però non scriverlo” (che poi di solito si tratta dei frammenti più interessanti), Carasso è tra i pochissimi che ti sfida a buttar giù i passaggi più potenti a chiare lettere: sottolineando che desidera il ‘virgolettato’.
Nonostante quindi a Forlì in non pochi possono aver legittimamente e comprensibilmente detto e/o pensato “fenomeno, resta a Rimini che è meglio”, io rimango fermo sulla mia posizione: peccato che Carasso non sia venuto. Avrà anche atteggiamenti da gradasso, come negarlo. Ma è un gradasso competente. Mentre nella mia Forlì ho ahimè conosciuto soprattutto gradassi incompetenti. Che più erano incompetenti, più erano gradassi.
Quanto alla “questione riminese”, ho da tempo superato le intolleranze allergiche che da ragazzo mi impedivano di valutare ragionevolmente qualunque romagnolo che affrontasse l’argomento basket al di sotto del Rubicone. Oggi, al contrario, forte della maturità raggiunta (lo vedo che stai ridendo, stronzo), considero persone come Davide Turci, Massimiliano Manduchi, Matteo Peppucci, Moreno Maresi – forse perché, narcisisticamente, in ciascuno di loro ritrovo un pezzettino di me – interlocutori tra i più piacevoli e brillanti quando c’è da confrontarsi su tematiche di pallacanestro. Paolo Carasso, che nell’ultimo decennio ho imparato a conoscere e (spero ricambiato) stimare, appartiene certamente a questo mio personalissimo club di “riminesi con cui vale la pena parlare”. Oso perfino dire che il “complesso del salto del Rubicone” sia stato un bug nella testa di Carasso: il quale sogna – e lo dice apertamente – di rimettersi in sella a Rimini, mentre diventare il timoniere di Forlì temeva lo avrebbe allontanato da ciò.
[Tempo addietro per me Carasso era solo il babbo di Paolo, Gian Maria, storico GM del Basket Rimini prima del re-branding Crabs. Come dimenticare quella volta in cui, ultrà men che ventenne – quindi ci collochiamo nei primissimi anni ’90 – forte della mia beata ed arrogantissima ignoranza, a 3 giorni da un Biklim Rimini – JollyColombani Forlì, mi presentai bello come il sole nella storica sede dei “pescivendoli” in Via Dante? Senza la creanza di una telefonata che introducesse la questione, bello come il sole, entrai negli uffici in compagnia di qualche mio compagno di merende. Munito di una busta con dentro 6 milioni di lire in contanti, feci l’ordinazione con la nonchalance con cui ordini un caffè macchiato al bar sotto casa: “500 gradinate, grazie” – avevamo fatto una prevendita autogestita al Bar Romagna Mia di Viale Roma raccogliendo i soldi. La segretaria svenne lì: da una porta dietro sbucò Carasso-babbo. Defibrillò la poveretta, quindi – stronzo come solo i dirigenti della generazione di Raffoni sapevano essere – si “prese cura di noi”. Guardandoci di sghimbescio, con lo sguardo disgustato di chi scruta una nidiata di sorci, tenne a dirci che 500 biglietti tutti in una volta non ce li avrebbe mai venduti e potevamo anche andarcene. Noi prendemmo a sbragare: 10 minuti dopo uscimmo. In tasca 6 milioni di lire in meno e 500 gradinate in più]
Esaurita la mia consueta premessa chilometrica, torniamo a bomba su Paolo Carasso (puntualizzando che non sono alla ricerca di ingaggi e collaborazioni con lui) e parliamo del suo Metodo. No, Carasso non ha inventato la penicillina. Anzi, per dirla con carassiana schiettezza, il Metodo Carasso è una copiatura, probabilmente con qualche personalizzazione, ma una copiatura. Un ricalco, diciamo così, del Metodo Papini. Claudio Papini (1931-2005), natali spezzini, è stato il Maestro di Carasso. Colui che negli anni ‘80/’90, in qualità di Responsabile delle Giovanili, ha fatto letteralmente la fortuna del Basket Rimini.
Approntando un sistema di lavoro organico, sotto la sua gerenza prese forma un plotone di giocatori (Myers, Ferroni, Ruggeri, Semprini, Righetti, Benzi, Fontana, Tassinari, Rinaldi, Raschi, Morri, Rossi) che hanno fatto carriere stupende. Sotto di essi altre decine di altri ragazzi hanno giocato due decenni a livelli intermedi. Sui tesserini prima e sui parametri poi di questi ragazzi, Rimini ha letteralmente campato. Papini lasciò Rimini nel 2001 per tornare a La Spezia, “investendo” Carasso del ruolo di suo successore.
Poiché copiare chi sa fare è meglio che inventare cretinate, ecco i dogmi di Papini che Carasso tende a riproporre. Lo ha fatto a Rimini prima, a Santarcangelo poi. Lo avrebbe fatto pure a Forlì.
- 1) Lavoro coerente in campo. Si lavora con coerenza di metodologia ed obiettivi tra tutte le squadre giovanili. Non si lavora “ognun per sé”, ma si segue un “filo logico” dettato dal Responsabile del Settore Giovanile. (Come al FC Barcellona: la prima squadra fa il “tiki taka” col 4-4-2? Dai pulcini in sù si gioca il “tiki taka” 4-4-2. Punto). I ragazzi, a mano a mano che crescono cambiano magari allenatore o qualche compagno ma consolidano le proprie certezze tecniche e umane, ritrovandosi sempre dentro ad una cornice tecnica e ad un modus operandi che resta stabile, e non cambia di stagione in stagione.
- 2) Lavoro coerente anche fuori dal campo. La coerenza che si persegue non è solo interna al parquet, ma mira a interessare anche valori pre-cestistici: il modo in cui un ragazzo “sta nel gruppo”, possibilmente il modo in cui il ragazzo “sta al mondo”. Myers era di natura sbruffone (da giocatore, soprattutto fino ai 25 anni), e quello attiene anche ad un temperamento personale. Ma se ci fate caso i giocatori usciti da Rimini sono quasi sempre stati atleti mediamente educati.
- 3) Allenare gli Allenatori. Il punto 1 (ma anche il 2) viene portato avanti attraverso periodici incontri (singoli e di gruppo) da parte dei vari allenatori col Responsabile Settore Giovanile. Nel 95% dei vivai il Responsabile e gli Allenatori fanno una riunione a inizio anno, in cui si ipotizzano delle incerte linee operative; ci si fa gli auguri ad una cena di Natale; infine – se va proprio bene – si fa un frettoloso consuntivo a fine stagione. Tempo d’estate, e chi s’è visto s’è visto. Qui invece si tratta di incontrare continuamente i coaches, affiancarli, osservarli, elogiarli, correggerli. Verificare come gli allenatori operano. Allenare gli Allenatori, insomma.
- 4) Il Sogno della Prima Squadra. Come l’imprendibile lepre di pezza nei vecchi cinodromi, che sospinge la corsa dei cani, la Prima Squadra viene proposta ai ragazzi delle giovanili come il Sogno cui mirare. La partita della prima squadra non è un farfugliante “ragazzi, chi di voi viene a vedere la prima squadra sabato?”. Gli allenatori delle giovanili danno appuntamento, con la stessa sacralità con cui fisserebbero un allenamento, ai propri ragazzi (e, indirettamente, alle famiglie) alla partita della prima squadra. Se non è un obbligo, poco ci manca. Ma trovarsi a vedere la prima squadra coi propri compagni, tutte le sante partite, genera nei ragazzi il Sogno. Ogni ragazzo finisce per bisbigliare tra sé e sé “un giorno, su quel campo, con tutti i miei amici a vedermi, voglio esserci io”. A Forlì questa cosa non verrebbe forse divinamente?
- 5) Ai talenti non si fa ombra. Giunti al termine dei percorsi giovanili, i giocatori fisiologicamente si distribuiscono nelle categorie coerenti col loro livello. I talenti più dotati, o comunque quelli su cui la società desidera investire, quelli che pervengono al Sogno del punto 4, quelli reputati come coloro che diventeranno i giocatori-bandiera e/o gli investimenti che possano nel medio periodo produrre introiti per il club, vanno in prima squadra. Per valorizzarli, ma valorizzarli per davvero, devono essere posizionati in prima squadra. E non per sventolare asciugamani ai canestri di improbabili americani o mercenari provenienti da ogni dove (do you remember Riccardo Marisi, Sandro Vitali, Marcello Casadei, Francesco Berlati, Federico Manucci, Alessandro Manucci?). Per poi domandarsi, magari 10 anni dopo, ah, chissà come sarebbe andato se quel ragazzo lo si fosse fatto giocare per davvero. Il giocatore su cui si punta parte in quintetto e gioca 35’. L’eventuale americano va in un altro ruolo. Direttore sportivo e coach della prima squadra è necessario che siano al corrente che funziona così. Se il ragazzo esplode hai fatto bingo. Altrimenti a darlo in Serie B in Serie C sei sempre in tempo. Poi magari viene l’anno che va male e retrocedi (Marr 1989/90). Poi però l’anno dopo hai la covata giusta e fai 2 promozioni consecutive e ti ritrovi in A1 24 mesi dopo.
Per chi domanda “quali e quanti giocatori di livello ha prodotto Santarcangelo nei 13 anni di Carasso?”, la risposta potrebbe essere: nessun campione, in effetti, però una quindicina di ragazzi in grado di portare, da protagonisti, per ben 2 volte in 10 anni, gli Angels dalla Serie D al terzo campionato nazionale. Più una marea in grado di fare della Serie C.
A Forlì, a fronte di centinaia di giocatori che giocano a basket anno dopo anno, è dai tempi di Matteo Frassineti (classe 1987, buon giocatore da 25’ in A2, una specie di Gratta e Vinci da 1.000 euro a margine del cappuccino) che non si immette sul mercato un atleta potabile.
Il giocatore da Serie A talvolta è una casualità genetica, una rosa che cresce nel deserto a discapito di tutto e tutti. Verrebbe fuori a prescindere. La qualità di un settore giovanile la misuri dal numero di giocatori di medio livello che sai produrre. Guardiamo cosa ha prodotto Forlì negli ultimi vent’anni di ostili cortili.
Ecco perché formattare e reinstallare il sistema operativo del basket giovanile a Forlì è necessario. Ecco perchè pensare di farlo fare a Paolo Carasso non era affatto una brutta idea.