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Caro Gigi ti scrivo

Così mi distraggo un po’

E siccome ti vedo lontano

Più forte ti scriverò

Da quando sei partito (per la tangente)

C’è una grossa novità

L’anno vecchio è finito ormai

E la squadra adesso è in serie A

Premessa

Uno dei momenti chiave nella carriera di ogni sportivo – atleta, dirigente, tecnico – è quello del distacco. Come lasciare? Quando lasciare? Perché lasciare? La questione è spinosissima, irrimediabile e (quasi sempre) fonte di rimpianti perché tracima di molto la sostanza del campo e abbraccia aspetti della coscienza personale, dei rapporti con gli altri, in generale dell’immagine che si ha di sé. Presente quando ascoltiamo una registrazione audio della nostra voce? “No, quello non sono io. Io non ho quell’orrenda voce lì”. Ce ne vergogniamo. E invece sì: quella puffesca, gutturale, nasale, femminea voce lì è proprio la nostra: quello che sentiamo noi ogni qualvolta parliamo invece è un suono che passa attraverso ossa, tessuti, laringe, coclea. Nessun altro al mondo lo sente così: per tutti il suono che esce dalla nostra bocca attraversa solo aria. Quale delle due è la nostra voce vera? Non c’è risposta (sono vere entrambe) perché è sbagliata la domanda. Quella corretta sarebbe: che voce ho io nel mondo?

Premessa/2

Ecco, Gigi. Che immagine vuoi avere nel mondo? Perché quella che hai tu è evidentemente distorta. Niente di grave eh, capita a tutti. Però da fuori laringe davvero non riusciamo a capire chi te l’abbia fatto fare, nel giugno scorso. Potevi lasciare da trionfatore assoluto e metterti dietro ad una scrivania, alla faccia di quelli che anche in una stagione da 75% di vittorie trovavano il pelo nell’uovo. Avresti avuto il loro sforzato saluto a vita. La gratitudine imperitura della città di Forlì. Ti saresti garantito un posto di lavoro più o meno fisso nella tua città adottiva. In definitiva avresti scelto una qualità della vita altissima, zero virgola zero uno stress, la serenità su un piatto d’argento in quel mondo della pallacanestro che ami e di cui comprensibilmente vuoi fare parte. E invece non hai resistito al richiamo dello spogliatoio. Della vittoria, della battaglia. Porca miseria, a pensarci adesso. Ma tu (in confidenza) ci pensi o ci pensiamo solo noi a quello che poteva e che potrebbe ancora essere?

Appunti/Tecnici

In un mondo sportivo nel quale le tattiche di gioco diventano ogni anno più fluide, l’Unieuro ha una sola faccia. In difesa il sistema difensivo “a uomo” non ammette esperimenti. Aggressivi sì, ma mai a tutto campo. Sempre così, solo così. La scelta è risultata vincente lo scorso anno ma in una situazione di partenza oggettivamente molto diversa dalla A2: l’Unieuro era una delle tre squadre più forti, quadrate e strutturate del campionato. L’identità d’acciaio era la sua differenza, il suo marchio: questo è il mio gioco, te lo impongo, vinco 3 partite ogni 4 e ti domino sul piano dei valori assoluti. Funzionava!

Riproporre la stessa logica in A2 è risultata una scelta perdente. Nettamente perdente. In tutti gli sport e nel basket particolarmente esiste qualcosa che talvolta può soccorrere chi ha meno frecce al proprio arco: la tattica. Se me la gioco sull’uno contro uno perdo sempre? E allora spariglio le carte. Zona. Ora aggressiva a tutto campo. Ora chiusa, magari una due-tre tipo Uisp. E tira da tre. Tre minuti così e poi via, di nuovo a uomo ma con cambi sistematici su ogni blocco. E poi a uomo tutto campo. Cambio i ritmi, accelero, rallento, ti mordo i garretti e l’azione dopo ti lascio arrivare. Parto a zona e dopo due passaggi mi accoppio a uomo. Oppure parto a uomo e dopo due passaggi sono a zona. Adam Smith mi fa 25 punti in 10 minuti? Mi invento – lì per lì, rigorosamente senza provarla – una box and one: Blackshear e Crockett sotto, Ferri e Vico davanti, Bonacini che segue l’americano di Roseto fino al posto auto. Vogliamo credere che i due americani, Ferri e Vico non sappiano mettersi a quadrato in difesa? Dai.

Ecco tutto questo porca miseria avrebbe, se non altro, cambiato il timbro e l’estensione della tua voce percepita al Palazzo.

Appunti/Comunicativi

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Anche chi non si perde in sofismi tecnici e non ha prevenzioni particolari, non gradisce l’allenatore Oronzo Canà che strepita, protesta, scalcia, sbrocca. La figura può ispirare tuttalpiù simpatia in regime di vittorie. Ma restituisce qualcosa di caricaturale e ridicolo, anche irritante, quando le sconfitte cominciano ad essere tante. Anche uno sponsor, per dire, potrebbe non gradire di essere sovrapposto a quell’immagine lì.

Quel linguaggio scomposto del corpo inoltre ti distacca dai giocatori, che alle prime ci restano male, poi non ci fanno nemmeno più caso. La comunicativa vera e propria (avresti anche qualche buon colpo, ricordi “Ci vuole i soldi”? Fu un lampo di genio) è stata soverchiata da frasi infelici: “Era un derby con Rimini? Non mene può fregar di meno”: ecco una roba così se anche la pensi non lo devi dire. Mai. Non si tratta di essere sinceri o falsi. Domenica ne hai sfornata un’altra. “cinque imbecilli” non può stare insieme a “ho sbagliato io”. O una o l’altra. E tre parole come “mi vogliono morto” ti vale solo un titolo truce sul giornale quando in realtà stai tentando, maldestramente, di compattare l’ambiente.

Alla fine della debacle con Jesi ero lì a due passi da te quando hai perso la tramontana, e mi chiedevo in quei secondi: ma se lo lasciano andare? Se i tuoi collaboratori anziché tenerti stretto rischiando il naso proprio mollassero la presa, cosa succederebbe? Probabilmente avresti combinato un disastro irrimediabile (denuncia, squalifica, sputtanamento per tutta la società). Di queste cose, Gigi, te ne rendi conto? Perché la voce che sentiamo noi da fuori è clamorosamente scollegata dalla realtà. E’ una voce che quando sale di una tacca la pressione – e continuiamo ad essere abbastanza lontani dall’Eurolega – somiglia sempre di più a quella di Lino Banfi. Prendiamo l’anno scorso, trionfale, bellissimo, indimenticabile: nelle 2-3 circostanze in cui sono aumentati i giri hai lanciato per aria la bussola del self control: bastò una domanda vagamente piccante di Enrico Pasini in un dopopartita perdente: apriti cielo. Partita compromessa con Piacenza? A momenti saltavi alla giugulare della panchina avversaria. Sotto 2-1 a Valsesia: eccoti sbragante sotto al settore ospite reo di un paio di cori.

Conclusioni

Consiglio non richiesto. Dovessi a un certo punto sentirti in paradiso a dispetto dei santi, non mettere i tuoi amici della Fondazione in una situazione imbarazzante. Non esitare a chiamarti fuori. Un “lo faccio per il bene che voglio a questo progetto”, con Rossi che ti applaude, cinque mesi da parte dopo quindici in copertina, magari una bella vacanza nel mezzo… Non sarebbe un sogno? Se non lo è, domandati perché. Se sei almeno combattuto, metti la Fondazione in condizione di decidere senza sofferenze personali. “Io sono qua, disponibile a farmi da parte, qualunque decisione prendiate è comprensibile e accettabile”. Ricordati: la Pallacanestro 2.015 non è una questione personale. Non renderla tale. Che ci creda o no, siamo convinti che tu per primo meriti un altro finale.