La seconda retrocessione in tre anni (un record) scolpisce nella pietra il fallimento della gestione Fabbri. Su tutti i fronti. Il Forlì che torna mestamente in serie D è una creatura senza alcun futuro: senza investimenti seri nel settore giovanile, che poi sarebbe l’unica via percorribile per costruirsi una sostenibilità nel lungo periodo. Senza un organigramma dirigenziale vagamente futuribile, con un monte debiti che superato abbondantemente il milione di euro è destinato a lievitare ulteriormente senza i contributi del professionismo.
Con un consiglio di amministrazione che presto, pare, perderà altri pezzi importanti dopo le uscite pesantissime di Conficconi e Bellini. Con un pubblico disaffezionato nonostante il girone vip di questa stagione. Non c’è un solo aspetto del triennio Fabbri che meriti di essere ricordato.
Anzi sì, due: la festa in piazza per il ripescaggio, uno dei momenti più grotteschi nell’intera storia del Forlì calcio, e la ristrutturazione dello stadio Morgagni. Operazione tuttora al vaglio della Guardia di Finanza e che ha portato, con un milione e 800mila euro di investimenti, all’abbattimento di due spogliatoi (ne sono rimasti solo due, niente più triangolari) per far spazio ad un ristorante del quale non si intuiscono le potenzialità, mentre i campi in sintetico realizzati da Venturelli attorno al Morgagni restano sottoutilizzati (vi siete imbattuti in una pubblicità? No). In questo caleidoscopio di superficialità e orrori più o meno volontari la società di viale Roma è riuscita anche nell’impresa di distruggere l’unico ambito miracolosamente funzionante in quest’ultima, tragicomica stagione: quello tecnico.
Affidato al diesse Cangini e a mister Gadda il budget più basso di tutta la Lega Pro, a gennaio e con la squadra che aveva miracolosamente preso a correre più degli altri, divertendosi e volando a +4 sulla zona salvezza, Fabbri e Cappelli, new entry spacca-consiglio, hanno pensato bene di mettere le mani nello spogliatoio. Prima azzoppando pubblicamente il diesse Cangini
darsi la zappa sui piedi, lesson number one
poi inserendo l’elefante Succi – triennale fuori proporzione rispetto ai compagni, Summer Camp pubblicizzato come la finale di Champions League su Premium, approdo dirigenziale con probabili chiavi del settore giovanile – nella cristalleria biancorossa: arroganza mixata ad incompetenza uguale retrocessione. E’ tutto logico e prevedibile, purtroppo. I numeri, a cominciare da quelli dei due attaccanti che fino a quel momento avevano tirato umilmente la carretta, non lasciano scampo alle chiacchiere: 7 e 5 gol per Bardelloni e Ponsat nel girone di andata, 1 e 1 in quello di ritorno. Chiaro?
Il Forlì si è stampato sul più bello. E lo ha fatto quando la società, ancora una volta e immemore degli errori commessi nel passato, ha deciso di capirne di calcio. No, cari soci, non ne capite un acca di pallone. E’ tempo oggi di farsene una ragione, una volte per tutte. Prendete un foglio A4 e scrivetelo 1000 volte: non capisco un acca di pallone, non capisco un acca di pallone, non capisco un acca di pallone, non capisco un acca di pallone.
base necessaria da cui ripartire
Il Forlì saluta a Fano il professionismo per tornare nei campetti di provincia. Niente di anomalo, è nella sua storia. Ma il Forlì di Fabbri aveva due anni e mezzo fa una grande possibilità: era in terza serie, aveva i conti quasi a posto, non subiva la concorrenza in città di un basket che Boccio avrebbe provveduto a incenerire, mentre a pochi km il Cesena, sommerso dai debiti, mollava la presa sui ragazzi del territorio. C’erano le condizioni ideali per costruire qualcosa di serio, per avere una visione e provare a svilupparla con calma, senza ansia da risultati ma con lo sguardo rivolto ad un futuro che sembrava davvero possibile. Nulla è stato fatti, anzi. Il Forlì di Fabbri è stato né più né meno lo stesso Forlì visto tante volte in passato, una società che non ha saputo guardare oltre al proprio naso, che non ha investito nei giovani e non ha sviluppato neppure un piano di identificazione sul territorio. Il professionismo è un’altra cosa, il calcio sostenibile è un’altra cosa. Cosa succederà domani è difficile prevederlo. O forse neanche troppo.