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Il collasso dell’Unieuro a Trieste e la seguente decisione di Garelli di non presentarsi in sala stampa hanno spiazzato tifosi e addetti ai lavori. Da una situazione che fino alla palla a due di Trieste era (sembrava?) tutto sommato sotto controllo, accettabile nei risultati e addirittura “prevista” nei modi e nei tempi, Forlì è passata improvvisamente allo psicodramma. Un suicidio tecnico-emotivo che ha cause di natura diversa e non superficiale: proviamo ad analizzarlo nei tre aspetti che a nostro parere lo hanno generato.

Motivi tecnici

La squadra è nel complesso un po’ meno competitiva di quello che la società si aspettava, gli avversari sono nel complesso un po’ più forti di quello che la società si aspettava. Nei singoli: Pierich era importante e si è rotto, Vico brilla pochi minuti a partita, Ferri in questo momento è in un tunnel, Paolin e Infante non hanno l’impatto con l’A2 che si sperava potessero avere, Crockett non cambia il giro all’orologio ma al massimo cavalca la lancetta, Blackshear sta rendendo parecchio meno di quello che il suo onorario farebbe supporre (poi ci torniamo). A questo va aggiunta la struttura della squadra, costruita in estate seguendo – come tutti sappiamo – gli obblighi di qualche contratto pluriennale che altrove sarebbe stato stracciato. Forlì è una squadra anomala, costruita non per primeggiare sulla lunga distanza ma per avere dei picchi nella singola partita. Tanti abbonamenti (sì), spettacolo al Palafiera (sì), salvezza tranquilla: questi erano gli obiettivi della società per la stagione in corso, antipasto del (si dice imminente) giro di giostra che ne manderà tre in A1 nel 2017-’18. Ecco: fino a Trieste – o meglio fino alla settimana che ha portato a Trieste, a pensarci bene – il campionato stava filando via liscio: record di abbonati, le schiacciate di Crockett tutte le settimane nella top 10, la sensazione di un potenziale se non altro promettente. Poi, Rotondo.

Motivi psicologici

Le esternazioni del lungo siracusano, prima a Panorama basket e poi ancora più direttamente sul Carlino, hanno avuto l’effetto di alzare la pressione su un ambiente che evidentemente fa moltissima fatica a reggere qualunque forma di attrito.

#lehadettedavvero

Qui avevamo difeso Rotondo quando qualche tifoso delle prime file l’aveva preso di mira nella partita con Udine, qui ridiamo a crepapelle alle sue parole di insofferenza verso il pubblico di Forlì. Un giocatore che non regge quel tipo di pressione lì dovrebbe giocare dove quel tipo di pressione lì (stiamo parlando di 10 persone, forse meno) non c’è. Le possibilità sono numerose quante le minors in Italia per cui no problem: ora qualcuno ci spiega come farà Rotondo a giocare al Pala Galassi la prossima in casa? Il rapporto col pubblico è andato, fine. Il fatto è che di fronte ad un problema tanto semplice – il giocatore ha detto una cazzata, il giocatore si scusa – la società non è riuscita a gestirla. Si è avviluppata sulle proprie insicurezze (e conoscendo Gira possiamo tutti immaginarne il pensiero) finendo per perdere la bussola.

C’è anche un’impressione personalissima (e magari non pertinente, ho il dubbio) che vorrei mettere sul piatto. Un paio di settimane fa ho seguito per caso – dovevamo fotografare Blackshear e Crockett con la bandiera americana prima delle elezioni – l’ultima mezzora di un allenamento nella palestrina. L’impressione fortissima che ne ho avuto, e che ho condiviso nei giorni seguenti con un amico, è stata che i non americani e in particolare Vico giocassero senza sentirsi ‘padroni’ della squadra, senza sentirsi davvero protagonisti della squadra. Facevano quello che gli chiedeva Garelli per carità, ma non avevano la faccia che avevano l’anno scorso. Sembravano, ripeto fu solo la mia impressione, ma molto netta, dei comprimari. Se la cosa fosse nei fatti questo sarebbe un grande problema per l’Unieuro, per due ragioni: la prima è che ne Crockett né tantomeno Blackshear, nonostante il faraonico ingaggio, sembrano lontanamente in grado di poter prendere – tecnicamente ed emotivamente – per mano la squadra. Il secondo è che i non americani non hanno compiuto un salto di qualità necessario se l’Unieuro, come ormai sembra evidente, dovrà lottare per la salvezza. Nel caso saranno più le perse delle vinte per cui il fattore umano, la coesione, la capacità di gestire la sconfitta e magari di accettare la pagliuzza del compagno quando si porta sulla schiena una trave diventeranno aspetti non negoziabili. Al momento l’Unieuro dà l’idea di essere parecchio lontana da tutto questo.

Motivi societari

Non ci stancheremo di ripeterlo: una società dal grande potenziale e ambiziosa come l’Unieuro deve, in una stagione di transizione come questa, pensare più di tutto e prima di tutto a strutturarsi. Mancava e manca tuttora una figura che stia al timone della barca con freddezza, capacità gestionali e lungimiranza. Sta continuando a fare quasi tutto Garelli, è quasi tutto Garelli: finché le cose andavano bene non c’erano problemi, non appena le sconfitte hanno raggiunto un livello minimo è cominciato il maremoto. Non ha senso. Sarebbe tutto, davvero, tutto, completamente nei margini della normalità se l’Unieuro avesse perso in maniera normale a Trieste e Garelli fosse andato in sala stampa a fine partita spiegando cosa non aveva funzionato e perché. Invece l’Unieuro sta affogando di propria iniziativa in un mezzo bicchiere d’acqua, quando ancora è metà novembre e alla vigilia del derby di Bologna. Ci sono ancora tutte le possibilità, tecniche ma soprattutto economiche, affinché questa stagione biancorossa torni sui binari previsti e il futuro prossimo sia qualcosa di eccezionale. Sta però alla società muoversi per tempo: col mercato (Bruttini? Bushati? Imola per dire sta trattando Thomas, uno che sposta) ma soprattutto comprendendo la necessità, impellente, di crescere.