Trieste è evidentemente uno snodo cruciale nel mio personale romanzo di formazione al basket. Qualche settimana fa vi raccontai di quel Jolly-Stefanel che rappresentò il mio debutto assoluto alla pallacanestro, nell’ottobre del 1986. Ebbene, poco meno di tre anni più tardi, esattamente il 24 settembre 1989, lo “sbarbato” 13enne che non aveva visto in vita sua una sola partita di basket aveva fatto galoppare a enormi falcate passione, intraprendenza, lucida follia e proverbiale faccia da culo. Tant’è che quel giorno, in occasione di uno Stefanel-Jolly (stavolta a campi invertiti), come detto a meno di 3 anni dalla “prima volta assoluta”, per la 1° giornata di campionato, a 400 km da Forlì, avrebbe dato vita ad un’altra significativa “prima volta”. Dopo averlo (più o meno) accuratamente organizzato, avrei fatto partire “il mio primo pullman”.
La storia, però, va raccontata dall’inizio. Alla fine del 1988/89, con la “Fossa dei Leoni” in crisi d’identità (anche perché il “Barbiere” – oggi al Palafiera uomo del tunnel, ma allora riferimento carismatico sulla ringhiera del terzo anello – era sotto naja) si era palesato una specie di vuoto di potere nell’allora affollatissima curva che tifava Jolly. Molta gente (e quando dico molta dico 3/400 ragazzi che si polarizzavano domenicalmente in quel punto del palazzo, roba che mi commuovo al sol pensarci): ma mancava il manico, o almeno così “mi” e “ci” sembrava. Noi eravamo un manipolo di amici con cui orbitavo dalla parti del Bar Romagna, trent’anni prima che i cinesi con un vertiginoso en plein si prendessero i due lati della strada (da un lato, per l’appunto, il bar; dall’altra il terrificante Wok). Appassionati di “cose ultras”, lettori di Supertifo (“La rivista del tifoso organizzato”), teneramente forgiati da metà anni ’80 in poi dai ruvidi gradoni del “Settore” al Morgagni. Forti di un sincero intrippo per la palla a spicchi, non so bene quanto consapevolmente, stavamo dando la “scalata” alla curva del basket. Mossa ardita: anche perché, come detto, lassù albergavano – talvolta per moda, talvolta in un puro-semplice-splendido momento di aggregazione, non sempre e non necessariamente per un trasporto emotivo vero nei confronti della squadra – tantissimi ragazzi. E noi, per dirla tutta, in quell’acquario non eravamo né i pesci più grandi (avere 16 anni o averne 21, a quelle età, non è esattamente la stessa cosa), né quelli che mordevano di più (chi mena e chi le prende è un altro fattore piuttosto dirimente in certe dinamiche). Di sicuro eravamo quelli con più idee e più visceralmente attaccati alla Jolly.
Durante l’estate del 1989, desiderosi di riorganizzare il tifo in curva, lanciammo un sondaggio nei due/tre bar dove bazzicavano le “ballotte” più votate al basket. Tema: la denominazione che il gruppo avrebbe dovuto prendere. Era una cosa che avevamo preso abbastanza sul serio, tant’è che ci presentavamo in questi locali con tanto di fotocopie recanti le opzioni scritte da me con la macchina da scrivere di mio padre. Con tanto di casella, in cui il “votante” era chiamato a mettere la X per indicare il nome dietro cui raccoglierci tra le 5 proposte. Nei vari posti dove passavamo lo lasciavamo a colui che reputavamo potesse essere il nostro ‘referente in loco’, che avrebbe distribuito le fotocopie tra i soggetti “interessabili” e infine ci avrebbe restituito le schede elettorali qualche giorno dopo per procedere allo scrutinio. Vinse il nome “Boys”, sigla tramandata dalla tradizione calcistica cittadina, nome che a me in realtà non è mai piaciuto, che sconfisse le quatto opzioni alternative (“Brigata biancorossa”, “Regime biancorosso” e qualche altra cosa del genere). Quella che racconto oggi, “col senno di poi”, facendola apparire come una sorta di “presa di potere” lungamente studiata a tavolino, in realtà era l’ardimento d’una mezza dozzina di ragazzini che stavano anche andando ma – parafrasando un Ligabue d’annata – non sapevano nemmeno dove. Di sicuro credo avessimo poca voglia di fare i compiti per le vacanze.
Deciso come ci dovevamo chiamare, per dare solennità alla “nuova gestione”, occorreva un battesimo di fuoco che conferisse autorevolezza al tutto: bisognava organizzare una trasferta. A luglio uscirono i calendari della A2. La prima giornata prescriveva alla rinnovata ed ambiziosa JollyColombani di Virginio Bernardi la trasferta di Trieste. Decidemmo allora di “fare un pullman”. Avendo 16 anni e 3 mesi – un po’ pochini, se ci pensate – avevo bisogno di avere al mio fianco un uomo d’esperienza. Ecco allora il mio inseparabile amico – oggi ottimo agente immobiliare in città e tuttora frequentatore della curva del Palafiera – Marco Mazzoni, di anni 15 (non ancora compiuti).
la prima sbronza
I due navigati organizzatori di trasferte, con due mesi davanti e l’ottimistica sicurezza che una cinquantina di esseri umani da portare in là sarebbe venuta fuori, dovevano per prima cosa verificare la fattibilità dell’operazione. Del tipo: quanto costa un pullman? Chi ce lo dà? Una mattina, poco dopo (o forse poco prima?) Ferragosto, prendemmo l’elenco del telefono e cominciammo a chiamare a tappeto le ditte dei pullman di Forlì. (Ora, per un attimo immaginate un’azienda di autotrasporti che riceve una telefonata da un 16enne e un 15enne, i quali chiedono un preventivo per organizzare un “cinquanta posti a Trieste, domenica 24 settembre” di cui divenire i “responsabili”: non fa ridere solo pensarci?).
ridere?
Iniziammo a raccogliere i preventivi. Dopo le prime telefonate incespicanti, il “disco” delle nostre richieste girava meglio. E noi, con un certo piglio, ricevuta la proposta, concludevamo con un vagamente altezzoso – facce di bronzo che non eravamo altro – “grazie, le faremo sapere”. Ci accorgemmo che su Forlì, dall’ATR a ForlìBus, fioccavano prezzi troppo alti. Allora ci spostammo sulle ditte del circondario. Ricci di Fiumana, Savadori di Cattolica: niente da fare. Finché una gentilissima signora di Gambettola della ditta “Menghi”, che non ho mai conosciuto di persona ma dalla voce calma e rassicurante mi pareva una signora in zona “nonna”, ci fece l’offerta al massimo ribasso e chiudemmo l’accordo. Il pullman era sistemato.
Tappezzammo la città di volantini, fatti stavolta con un bell’uniposca nero (Bill Gates era un bimbominkia come noi: Microsoft Word non l’aveva ancora inventato). “TUTTI A TRIESTE!” in grande. E poi: “In occasione della partita Stefanel Trieste – JollyColombani Forlì, i ragazzi del Bar Romagna organizzano un servizio di pullman al seguito della squadra”. E via tutte le info. (“Servizio di pullman” era una dicitura che i “vecchi” della Fossa dei Leoni avevano usato nei loro volantini negli anni precedenti. Pur sapendo che sarebbe stato un miracolo farne uno, di pullman, la presi “pari pari” perché dire ‘servizio di pullman’ era ambizioso, positivistico, non poneva limiti alla provvidenza: perché limitarsi a uno quando puoi farne due o tre o cinque?). Ovviamente nei punti strategici, quelli dove avevamo fatto il sondaggio sul nome del gruppo, accompagnavamo il volantino dalla nostra presenza fisica, invitando i nostri referenti a spingere l’iniziativa.
Il pullman l’avevamo. Il volantinaggio era fatto. A quel punto non restava che aspettare la “reazione della piazza”. Che si palesò, per la prima volta, inaspettatamente, una sera di fine agosto. Eravamo, come sempre, in piedi davanti al Gelatiere (a meno di 100 metri dal Bar Romagna) insieme a quel fiume di ragazzi che lì si davano appuntamento tutte le sere d’estate per mangiare il gelato, sparare cazzate e soprattutto intortare (bazzicava di lì anche colei che sarebbe diventata mia moglie: mi rivelò che già all’epoca le spiaciucchiavo e veniva per vedere se, sicuramente tra qualche altro fanciullo di suo gradimento, ci fossi anch’io. Sara, scusami: ero troppo proiettato sul basket e sulla trasferta a Trieste per pensare alla f.i.g.a.). Quella sera, dicevo, uno dei tanti ragazzi del bar – però di quelli che al basket preferivano incredibilmente il mah-jong: vedrete, un anno di purgatorio non glielo leva nessuno – attraversò viale Roma di corsa freneticamente. Col fiatone di chi è ambasciatore di una notizia non banale. Costui riferì a me e a Mazza che al bancone c’erano due ragazzi che chiedevano informazioni sulla trasferta. Momento in un certo senso epocale: mollammo tutto e ci fondammo al bar. Trovammo Roberto Romboli (futuro arbitro), all’epoca coda di cavallo alla Piero Pelù, con la sua fidanzata Patrizia: “grandi, ragazzi” e li iscrivemmo. Credo proprio siano stati i primi. Poi, qualche giorno dopo, arrivò un’altra coppia a noi sconosciuta, ma che si rivelerà granitica in quanto a passione per il basket: Alessandra Schibuola e Lucio Di Taranto. (Erano lontani i tempi in cui, storia di pochi anni fa, Lucio Di Taranto mi avrebbe coperto di contumelie a telecamera accesa in un’“Uscita Palafiera” di Panorama Basket perché, in qualità di redattore di Forlibasket, esponevo qualche sommessa perplessità circa le modalità gestionali della FulgorLibertas. Quella volta ci rimasi male, perché per me Lucio era ancora il ragazzo che si era iscritto tra i primi nel mio pullman per Trieste: ma volaireianamente mandai in onda il tutto). Sta di fatto che l’Alessandra e Lucio sarebbero stati degli ospiti fissi dei nostri pullman per tante trasferte e sarebbero stati a lungo i miei “preferiti”. Romboli, la Schibuola, Lucio. Tutta gente sensibilmente più grande di noi: non riesco bene a capacitarmi di come gente di 24 o 25 anni potesse fidarsi di iscriversi ad un pullman organizzato da dei ragazzini. Ma tant’è.
24 settembre 1989, alle 11:00 al Bar Romagna si radunano gli iscritti. C’è il nostro nucleo, più una variopinta umanità di tifosi. C’era Carletto, mio perfetto coetaneo dei Cappuccinini, che conoscevo superficialmente: da lì saremmo diventati amici per la pelle. Era con la sua famiglia al gran completo: papà Italo, la mamma, la sorella Sara (non c’è più nessuna di queste splendide persone, purtroppo). (E ci risiamo: una famiglia che interamente si mette nelle mani di me-sedicenne. Possibile? Ma andiamo avanti). Chi c’era? Ah, già, c’era il mitologico Fornaio, Yader, fedelissimo anche del calcio, che tutt’ora arriva al Palafiera tipo 4 ore prima della partita dell’Unieuro: credo faccia parte di un training-autogeno che lo aiuta a entrare in partita. C’era Massimo Libassi, altro arbitro, enorme appassionato, un altro che purtroppo non c’è più: poveretto, in assenza del reato di omofobia, finiva massacrato per il suo “vizietto” ad ogni singola trasferta ma incassava con commovente capacità di “farsela entrare da un’orecchio e uscire dall’altra”.
Già, perché poi – rigorosamente nelle zone posteriori dei pullman, quelle in cui in ogni gita che si rispetti prendono posto i ragazzacci – c’erano i grupponi “da gestire” (ma quando mai?), quelli più caldi. Una piccola delegazione del Bar Centrale della Cava ma soprattutto i famigerati ragazzi della “Baia del Re” e quelli del “Marini”. Famigerati più che altro perché tutti più grandi, tutti più cattivi, con le loro ingombranti e spaventose leggende di serate in discoteca movimentate, vite spericolate, sortite alle partite del Cesena: insomma un “vissuto” dinnanzi al quale io non ero che un ridicolo pischello. E infatti io di quella zona di pullman avevo un notevole timore reverenziale, lo ammetto: al punto che – pur essendo tecnicamente il ‘titolare’ del torpedone – né mi addentravo làdidietro né riuscivo minimamente ad oppormi o ad arginare quanto veniva detto o fatto. Che sono poi i limiti del fare il capo-ultrà (o qualcosa del genere) a 16 anni.
Partiti alla volta di Trieste su questo pullman che esplicitava chiaramente il prezzo ultra-concorrenziale a cui l’avevamo preso, con la scelta assurda di fare la Romea fino a Venezia suppongo per ragnare i soldi dell’autostrada, mi accorsi fin da subito che i miei compagni di viaggio posteriori bevevano come spugne e che quel che veniva fumato forse eccepiva le normali Marlboro (e lo dice uno che s’è ubriacato la prima volta in vita sua a 23 anni e non ha mai fumato una sigaretta. Una sigaretta, ho detto). Cori triviali, rutti e qualunque tipo di rifiuto a terra. Era chiaro che la ditta “Menghi” avrebbe riportato a Gambettola un pullman a pezzi. Arrivammo con larghissimo anticipo a Chiarbola, la collina sopra Trieste dove si trovava il vecchio e omonimo palasport, nato originariamente per l’hockey a rotelle… o forse la pallamano… o per qualche altra disciplina proto-balcanica in voga da quelle parti: aveva, questo palasport, la caratteristica di avere gli assurdi spalti “torti su sé stessi”, fino a costringere una cospicua fetta di spettatori a vedere la partita a serio rischio torcicollo.
letteralmente
Eravamo lì fuori a gozzovigliare in splendida solitudine quando a un certo punto arrivò dal nulla, salendo la collinetta, il pullman della squadra: ci lanciammo su di loro per riempirli di cori e e applausi, ricordo lo sguardo sconcertato di Smrek e Mentasti totalmente stupiti dal trovarsi 50 balordi a 2 ore dall’incontro che intonavano il loro nome.
Finalmente aprirono i varchi e, dopo aver fatto i biglietti, entrammo. Ci sentivamo tanti, tosti, invincibili, ma soprattutto era da 2 mesi – con particolare riferimento alle ultime 5 ore di pullman – che ci caricavamo per questa cazzo di trasferta. In questi casi sei in evidente ansia da prestazione e infatti, da veri deficienti, a fronte di relazioni storicamente neutre con i triestini, esordimmo intonando un sobrio “Yu-go-sla-via”: il coro più provocatorio – e anche imbecille, oso dire a posteriori – che puoi fare in una città che sta sul confine esatto tra l’Italia e l’allora Yugoslavia. Come apparirà chiaro, il bel gemellaggio attualmente vigente tra le tifoserie di Forlì e Trieste sarebbe maturato anni dopo. Quel giorno c’era troppa ignoranza dalle nostre parti.
Bisticciammo col pubblico locale tutta la partita (anche se non c’era di fronte un gruppo ultras compiutamente organizzato), tifammo poco e male (erano tutti sconquassati da quanto assunto in viaggio) e la partita fu un punto a punto straordinario a punteggio bassissimo. Vinse sul filo di lana la Stefanel 76-74: era la Stefanel di Tanjevic con due americani semisconosciuti ma che avrebbero fatto un carrierone in Italia (Terry Tyler e un certo Larry Middleton)
lui
ai quali si aggiungeva un nucleo di italiani all’epoca men che ventenne che avrebbe fatto tanta strada: Pilutti, De Pol, Lokar, Cantarello e un certo Mauro Sartori. Che, intervistato a fine partita ancora madido di sudore, dichiarò a una tv locale: “Bellissima vittoria, però mi è crollato un mito. Bonamico era il mio idolo, ora non lo è più perché mi ha tirato una gomitata a tradimento”. Era solo la prima giornata. Il Marine era in pre-season, in vista di ben più importanti roncolate, quella a Servadio ad esempio, che instradò i playout fino al trionfo di Fabriano, che ho raccontato in WinFORLIfe. Già, perché la stagione cominciata col “mio primo pullman” a Trieste, si sarebbe chiusa con un trionfo: avevate dubbi?
La notte del casello, il primo dei 3 grandi caselli del basket forlivese, con “Trombetta”, uno dei pochi “bad guys” del Marini con cui comunicavo serenamente, ci sedemmo sul guardrail all’ingresso dell’autostrada. In attesa del pullman della squadra, ricordo come fosse adesso che ammiravamo i 1000 tifosi in festa alle 2 di notte, tutta quella gioia, tutto quell’entusiasmo. E ci dicemmo: “Ti ricordi a settembre a Trieste? E’ cominciato tutto là: ne abbiamo fatta di strada eh?”. Già, ne avevamo fatta abbastanza. Quanta ne era bastata per passare ed ovviamente fermarci, di ritorno da Firenze, giusto un mesetto prima, dall’area di servizio Aglio Est. Quella dell'”hooligan forlivese, diciassettenne, incensurato”, come recitò un indimenticabile trafiletto su Tuttosport. Questa però ve la racconto un’altra volta.